La Ferita Della Bellezza

Luca Scarlini
La ferita della bellezza
Terza stesura, 10/4/2017
Personaggi
Jacinto Melani, fattore di campagna, amministratore dei beni di famiglia (J)
Atto Melani, illustre cantante, spia, diplomatico, abate (A)
L’Angelo della Storia, figura allegorica, che come vuole Walter Benjamin, ha spesso la testa volta all’indietro, racconta i fatti, a suo modo, con ironia, commenta, smonta e rimonta gli eventi, vocalizza, gioca con cartelli brechtiani, insomma informa e gioca allo stesso tempo. Lo chiamiamo Angie, ha le ali grandi, da teatro di parrocchia, e una parrucca tutta boccoli, compare in ogni atto per un suo personale spettacolo di commento.
I due sono fratelli, ma più che nelle fattezze, nei gesti, in certi modi di dire, però è indubbio che tra i due corra un’aria di famiglia.
L’azione si svolge a Pistoia, nel giro di tre giorni: 30 dicembre, 31 dicembre 1699, 1 gennaio 1700. In scena sono un tavolo, due sedie, due candelabri.
Atto è appena arrivato da Roma, dove c’è il sospetto di una pestilenza. Se ne è scappato di notte, alla chetichella, prima che scattasse la quarantena. Sta tornando per sempre a Parigi, da cui era stato allontanato anni prima, per spionaggio, per volontà del re Sole. Si reca a Pistoia, alla Fattoria del Batocchio, dove vive suo fratello Jacinto, con la sua numerosa famiglia. Il musico arriva che è notte fonda. Un vento gelido misto a nevischio spazza l’aria, è l’ultima notte dell’anno, Jacinto viene ad aprire la porta; dentro la fattoria è buio, solo qualche candela, qua e là. L’azione è nella stanza della cucina, con un tavolo, due sedie e candelieri. Si sente bussare piano alla porta, una, due, molte volte, finché si sente un suono strascicato di piedi, e la porta si apre di colpo, con un gran rumore di vento. Ovviamente la porta può essere puramente metaforica, e realizzata soltanto con il rumore.
SCENA 1
30 dicembre 1699
J (sorpreso, è in camicia da notte, ha i capelli sconvolti) Atto! Mi vuoi far venire un colpo? Sembri un fantasma, con quei capelli bianchi.
A (è in perfetto ordine, con i capelli bianchi coiffés all’uso di Parigi, con i boccoli, perfettamente sparsi di farina, rimane sulla porta) Bonsoir les amis! Non sei contento di vedermi?
J Possibile che devi sempre venire senza annunciarti, di notte, con il buio e che non puoi mai arrivare come tutti gli altri cristiani? Che vengono di giorno, con la carrozza da Firenze che arriva a Piazza della Sala alle dodici circa. Così ci facciamo vedere dai pistoiesi, che sono contenti di sapere che la celebrità locale è di ritorno e poi si mettono subito a parlare male di te nelle conversazioni. Io ti vengo a prendere con i figlioli con il vestito delle feste, e già che siamo al mercato, ti chiedo se ti piace di più il pollo d’India o la rosticciana, compriamo quello che serve e la Bartolomea prepara come vuoi tu.
A La nourriture, ça suffit. Ma che parli di polli e maiali, di ariste e girelli? I Melani sono famosi come la famiglia più castrata d’Europa: sei fratelli su sette, come raccontano maliziosamente le gazzette, vuoi che non stia attento alla linea? Lo sai che sono sempre a dieta. A noi musici comunque l’età non giova. Per via dell’operazione diventiamo curvi e poi gobbi se non facciamo attenzione al fisico.
J Non ti sembra di esagerare?
A S’il te plait!
J Smettila di parlare francese: lo sai che non ti capisco. E poi tutti invecchiamo, mica solo tu. E io allora: se mangio una fetta di castagnaccio, che mi piace tanto, prendo un chilo.
A (con intenzione, calcando) Arrête. Parlons d’autre chose. Di farmi vedere dai pistoiesi poco mi importa. Però la vecchiaia che brutto sogno. Dopo i quaranta ci si sderenano i fianchi, la pappagorgia cade a picco e ci viene fuori il petto. Io non ho nessuna intenzione di venire scambiato in strada per una vecchietta vestita da uomo. Da giovani siamo curiosi, la gente ci segue perché siamo affascinanti, perché luccichiamo come gioielli e le donne svengono in teatro, quando prendiamo un acuto perfetto, ma da vecchi diventiamo un’attrazione ridicola. Per questo ho smesso presto di cantare, che va bene dimenarsi da giovani per attrarre l’attenzione, ma poi non è più una carriera seria.
J: Meglio la spia?
A: Il diplomatico, sì. Beaucoup mieux. Ma non ho preso un chilo, da quando ho smesso di cantare, basta un po’ di insalata e due fette di pane della fattoria. E poi lo sai che non mi piacciono le cerimonie tra noi. Quando sei vestito di gala mi sembra che reciti, se non ti prepari sei molto meglio.
J (si ravvia i capelli, si rimette a posto la veste) La verità è che ti piace mettermi in ridicolo, per questo vuoi sempre venire di sorpresa, di notte, come un ladro, così non sono mai alla tua altezza.
A (lo abbraccia, l’altro fa per ritrarsi) Come sei forastico. E poi non c’è bisogno che per me rovini il vestito buono, ti pare? Quello con i pizzi di Fiandra che ti ho mandato da Parigi. Su per giù (ironico, misurando alle spalle) abbiamo la stessa taglia, e quando muoio, li erediti tutti tu, i vestiti. A parte quello che ti è sempre tanto piaciuto, di velluto contresemplé, operato a gigli di Francia color d’argento. Con quello voglio esserci seppellito io, che è un regalo del gran Luigi e una cara memoria.
J Dove vuoi che ci vada con tutto quel trionfo luccicante di pizzi e gale, al mercato a comprare le uova?
A Tutte le volte che ti rivedo, sei sempre più ricco e autorevole, la camicia da notte che hai ora è di battista, una cosa fine tessuta dalle monache benedettine, qualche anno fa l’avresti portata di percalle grezzo, produzione della fattoria. Prima o poi ti serviranno quelle vesti della festa, e comunque se non a te, ai figlioli senz’altro. Noi Melani tutti uguali, volto sereno, colorito ridente, sorriso aperto, stessa struttura fisica. I ragazzi non studiano da magistrato? Mica potranno andare nelle udienze o a corte vestiti di stracci? Gli abiti sono importanti per ben figurare in società.
J Vuoi entrare dentro che ci congeliamo?
A Non mi hai mica invitato a entrare.
J Non siamo a Versaglia, e non ci sono maestri di camera. Siamo alla fattoria del Batocchio, a Borgo Le Gore, è il 30 dicembre e c’è una tramontana ghiaccia che viene su dall’Ombrone e che leva la pelle, ti pare che dobbiamo ancora stare a fare cerimonie?
Jacinto lo prende per un braccio, l’altro recalcitra, poi si fa tirare dentro, Atto entra, chiude la porta dietro di sé, si scuote gli abiti.
J Vuoi un bicchiere di vino caldo? Hai bagagli?
A Come sempre, ho solo questa borsa da viaggio, con un ricambio di biancheria, qualche lettera e un mannello di spartiti, perché anche se non canto più, ogni tanto mi piace di esercitarmi. Lo so, è un vezzo, ma perché resistere? E poi sono arie speciali: a chi le sa leggere si rivelano tante cose. Non me lo chiedi perché sono qui? Sono due anni che non torno.
J Per nostalgia dei vecchi luoghi in cui sei cresciuto? Per festeggiare il nuovo secolo con la famiglia? Ma lo sai che noi non facciamo grandi feste, a me lo sperpero dà ai nervi.
A Eppure sei ricco. Ho l’idea, caro il mio precisino, che tu sia molto avaro, n’est pas?
J Basta francese, per Dio. Quando i figlioli saranno capifamiglia faranno come vorranno con i quattrini, ma per ora le briglie sono nelle mie mani, e le tengo strette. Domani notte invece andiamo tutti in cattedrale, che c’è il Te Deum solenne e un predicatore importante che viene da Firenze per dirci come affrontare il secolo nuovo. (pausa) Atto non li sopporto i tuoi indovinelli, non li ho mai sopportati, nemmeno quando ero bambino.
Cambia la luce e arriva l’angelo con il suo cartello dal titolo: I segreti della Storia.
ANGIE Già, perché Atto è venuto via da Roma, dove era sempre in vista accanto al Papa? Non potrà mica essere solo per la pestilenza, ha qualche altra cosa in mente, e poi a Parigi è pieno di interessi, curiosità, segreti, molti lo aspettano, ci sono conti da regolare, cose da spiegare. (Canticchia e tira fuori un cartello con un elenco di date e le illustra cantando, sulla falsariga di un’aria di Lully, ad esempio Phaeton, o simili, comunque di stile francese e pomposo).
Ve lo spiego io l’arcano. Ecco a voi, di mia composizione, un’operina veloce veloce intitolata La disgrazia di Atto, che da Pistoia era arrivato a Parigi, via Firenze e Mantova, di letto in letto e che poi venne colto a spiare e mandato in esilio a Roma. La canterò in stile e in lingua francese, segue parafrasi italica. (srotola un cartello con immagini)
1661: Le Grand Mazarine est mort, est mort le Grand Mazarine
1661: L’ecureuil est en prison: Fouquet est en cachot
1661: Atto exilé, à Rome, à Rome, à Rome, chez le Pape
(vocalizzando ad libitum come e quanto desidera) Insomma, il 1661 non è stato un anno fortunato per Atto, perché Marte era in Ariete, e la Vergine era nella quinta casa. E poi fiammeggiava in cielo il trigono igneo e a ministri di guerra toccava più del solito in quel tempo star lesti. Perché il conflitto era ovunque possibile in Europa,: una gran polveriera. Il gran Luigi si è reso conto che Atto copiava le sue lettere, e le mandava al potentissimo ministro Fouquet, detto l’ecureuil, ossia lo scoiattolo per la sua intraprendenza e rapidità di mano. Risultato: quello per tutta la vita in prigione, Atto quindici anni a Roma.
Perché Luigi, che era furente e non voleva più sentire il suo nome, lo ha perdonato e ora Atto ha ripreso tutti i suoi averi in terra di Francia? Perché Atto sa molte cose, parbleu, e ha nelle sue mani una certa lettera che tratta dell’aiuto militare dato da Parigi ai turchi, che farebbe poco piacere si divulgasse al gran sultano di Versailles. Ha di nuovo il permesso di tornare a Parigi, dove ha mantenuto comunque il titolo di gentiluomo da camera e ora si vuole stabilire là. Perché, perché, perché? Atto, diglielo tu il perché, però non mi sembra nelle tue corde, rivelare troppo facilmente le cose. Ti piace il mistero, mettere le cose tra parentesi.
Angie soffia una polvere d’oro vocalizzando e torniamo alla Fattoria del Batocchio.
A Potrei dirti che mi sei apparso in sogno e che ho sentito il bisogno di rivederti. Ma non sei certo così sciocco da credere a queste favole.
J Atto, se ti serve qualcosa dillo.
A Devo fare i conti con te, con la famiglia, è l’ultima volta che torno, poi mai più.
J Ti servono indietro i soldi che hai messo nell’acquisto della fattoria? Ora non li ho, ma presto te li posso mandare a rate, dove vorrai.
A Mais non, voglio parlare del passato e del futuro.
J Atto, basta con gli indovinelli, sono stanco. Ora torno a letto, dove ero prima, che stavo meglio e di sicuro si sarà freddato lo scaldino. Meno male che non si è svegliata la Bartolomea, che se no le prendeva un accidente, visto che ha tanta paura dei ladri. Ne parliamo domattina, prima di andare a messa.
A Houlala! Se la Bartolomea ha tanta paura, vuol dire che avete mucchi di scudi sotto il materasso e buon pro vi faccia. Sogni d’oro allora, con tutti quei quattrini. Io starò qui lo sai che soffro d’insonnia, me ne starò qui al tavolo di cucina a leggere e a scrivere. Lasciami un lume, s’il te plait.
J (ringhia a voce bassa) Basta francese!
SCENA 2
31 dicembre mattina
Atto è uscito a passeggiare, Jacinto guarda attentamente le sue carte, lasciate sul tavolo, sono pagine di musica. Quando Atto torna canticchiando, Jacinto rimette precipitosamente a posto le pagine che ha osservato, si allontana più in fretta che può dal tavolo. Atto entra in scena vocalizzando, sullo sfondo un’aria dell’Orfeo di Luigi Rossi “Ma che tardo a morire ? Se può con lieta sorte ricondurmi la morte alla bella cagion del mio languire? A morire!”.
J E chi ti ammazza a te? Hai sette vite, come i gatti.
Atto va subito al tavolo.
A Hai cambiato l’ordine delle carte. Guarda che me ne accorgo.
J Figurati, ero qui ad accendere il fuoco, si gela qui dentro e non volevo che ti prendesse un accidente, visto che sei cagionevole.
A Come no, Monna Lusinga, io sono cagionevole come un toro e come sempre quando vengo qui mi ronzi intorno per vedere se scopri qualcosa nelle mie carte e alla fine arriva sempre il momento per chiedermi se voglio aggiungere il famoso codicillo al testamento, vero?
J Ci hai già lasciato tutto: beni, averi, palazzi, mulini, poderi e la fattoria del Batocchio. Che altro potrei volere?
A Jacinto, sei il re dei finti tonti, lo so io e lo sai anche tu, ma certe volte sei insopportabile. Comunque è inutile che guardi nelle mie carte: sono piene di segreti, ma sono scritti in musica, e tu le note non le sai. Vedi questo spartito? Se lo sai leggere qui trovi tutti i teatri di guerra dei prossimi due anni in Europa.
J E allora cosa ti viene in mente che ti spio, io la musica non la so, e le note mi sembrano cacche di mosca, quindi di che hai paura? La verità è che sei lunatico, eri ombroso anche da bambino; ma ora da vecchio, a forza di far complotti, ti sembra che tutti ti spiino e ti siano nemici. Cosa me ne farei di sapere tutti i prossimi teatri di guerra europei?
A I segreti te li potresti vendere ai Medici, per tramite dei figlioli, la dinastia è al tramonto, Giangastone sta sempre a letto con l’esercito dei suoi ruspanti, ma se è in buona giornata non è sciocco, i ministri sono in funzione e hanno ancora dei quattrini e sarebbe giusto prenderglieli.
J Farnetichi.
A Ti accuso alla luce del sole di volere le mie lettere, quelle scritte al Granduca, al gran Mazzarino e al Re Sole per venderle al miglior offerente, lo sai bene quanto valgono. Da sole vogliono dire molti più soldi di tutte le altre proprietà.
J Sono un semplice fattore di campagna. Io mi intendo solo di semine e raccolti, di maiali e vitelli, al più posso parlare con un frate della stagionatura del vin santo. A chi mi rivolgerei per fare questo servizio? Al prete, al bargello? “Scusate, ho qui le lettere segretissime di mio fratello l’abate, anzi il famoso musico, che dico, la spia, in cui si spiegano tutti gli arcani d’Europa, come faccio a cavarci dei quattrini? Se mi potete aiutare vi do una percentuale”. Lo sapresti in un minuto.
A: D’accord. Se fossi vivo, sì, gatta morta, ma se non ci fossi più, non ne saprei nulla di nulla, e tu sei una spia nata. Le poche volte che sono qui al podere mi stai sempre dietro. Se mi cade un foglietto, lo esamini per un’ora e fai le prove con la fiamma della candela, per vedere se è scritto con l’inchiostro della simpatia, fatto con sugo di limone. Ovviamente lo lascio cadere apposta, così ti puoi dedicare, ma sono fogli bianchi, mettitelo in testa: colore del latte e della ricotta: non c’è scritto sopra niente.
Angie, arriva dal fondo, con un mannello di lettere in mano, che dissemina sul palcoscenico.
Lettere, lettere chi vuol lettere (vocalizza) Anche Jacinto ha le sue ragioni, quelle lettere valgono una fortuna, lo sa da sempre. Una dopo l’altra, sono centootto volumi, fitti di date, nomi, indirizzi, peccati e assoluzioni. Atto ha passato buona parte della sua vita a farne un indice ordinato, le ha rilegate in marocchino di Cordova, con inciso il numero in rilievo in oro, per vederlo meglio e trovare subito quello che cercava. Poco prima di morire, Atto eliminò tutto, e per sfregio lasciò solo l’indice, che era in sé un libro bellissimo, anche se inutile. Eppure qualche lettera è rimasta, ma non quelle più compromettenti. A Parigi era ottobre quando si dette al gran rogo, senza cercare aiuto dei domestici, esclusi da subito dal gran rituale. Controllava che tutte andassero in fumo, una ad una, il gran camino mandava un fumo denso, nero, l’inchiostro dei segreti si scioglieva nell’aria.
Esce vocalizzando, buttando le lettere in aria.
J: (ha uno scatto) Sai sempre tutto tu, ti prenderei a schiaffi.
A: E ti andrebbe male, perché ho i riflessi ancora pronti, e tu sei più goffo di me.
J: Già, io sono l’orso da esibire alla fiera. E tu sei l’Ercole di Pratolino!
A: Il padre gesuita Maigrot, che è stato per tanti anni in Cina, a Parigi mi ha insegnato una mossa segreta imparata da un maestro. Ti posso mandare a gambe all’aria solo usando la forza del mio dito indice. Stai attento che non mi venga voglia di usarlo. En garde. (lo minaccia)
J: Ma non farmi ridere.
(Atto gli preme l’indice alla base del collo e l’altro cade a terra di schianto, a gambe all’aria)
A: Non ti faccio ridere.
J: (si rialza a fatica, si rimette a posto i vestiti, cerca di ritrovare una dignità)
A: Comunque, oltre che goffo nei movimenti, sei un prezioso ridicolo, cosa t’è venuto in mente di chiamare quel povero ragazzo Luigi Maria Raimondo? In campagna sono fortunati solo i nomi brevi.
J: Dovevo chiamarlo Atto?
A: Non te ne accorgi che ridono tutti fino a Pescia, quando lo chiami e con tutto il nome, perfino, che ci metti cinque minuti? (gli fa il verso, arrotando la r: Luigi Maria Raimondo, dai da mangiare alle galline, governa il maiale…).
J: Se lo chiamavo Atto, lo aggiungevi il codicillo al testamento?
A: Lo vedi che sempre di quello parli? È una ossessione. No, e poi no, lo potevi chiamare anche Etto, non cambiava niente. Sono carte che scottano, ci finiresti male. Qualcuno per prenderle ci metterebbe poco a farti fuori. Te e i figlioli.
J: E a te non ti ammazza nessuno? Eppure con i riccioli infarinati al vento, con i gigli d’argento sul vestito, con tutte quelle tue gale e fiocchi, saresti un bersaglio facile.
A: Ho preso le mie precauzioni, e finché sono vivo, non succederà niente, ma appena non ci sono più, chiunque le abbia in mano muore. Le lettere se ne verranno via nella bara con me.
Jacinto impreca sottovoce, quasi ringhia, poi esce sbattendo la porta.
SCENA TERZA
31 dicembre, sera
A: Canticchia, sempre dall’Orfeo di Luigi Rossi.
Ma sentite, cantiamo una canzone
Tu dirai soltanto tara tara ra
Tu dirai tappatatà e quando io dirò su su su
Tutti faremo tu tu tu
Lentamente torna in scena Jacinto, con un fiasco d’olio
J: Non ti cambi per venire in chiesa?
A: Per Pistoia sono anche troppo elegante, non serve che aggiungo altri pizzi. E poi mi pare che oggi ci sia davvero poco da festeggiare.
J: Perché?
A: Perché è una tristezza.
J: Cosa?
A: Che domani siamo nel 1700.
J: Cos’è, ti senti più vicino a morire, con il secolo nuovo? Stai facendo i conti delle benemerenze per il regno di là? Hai paura di non finire in Paradiso? Se ti troverai all’Inferno canterai per i diavoli e gli farai cambiare parere sul tuo castigo, e se starai in Purgatorio manderai messaggi a San Pietro che se non ti apre al piano di sopra fai uno scandalo per la sua passione per i bei ragazzi mori e circoncisi, insinuando che spiffererai la notizia a Versaglia.
A: Spiritoso, ma antipatico. No, è che tutto un periodo importante finisce, e chissà se noi avremo ancora un senso, un posto nel secolo nuovo.
J: L’arciprete della cattedrale di Pistoia ha un cugino in Vaticano, fa l’usciere e sa molte cose: dice che nelle corti e nei teatri, e perfino a San Pietro, quelli come te nel secolo nuovo saranno sempre meno.
A: Le persone intelligenti, vuoi dire? Le spie? Gli artisti di buon gusto? Oppure vuoi direi che i musici diventeranno un’anticaglia? E chi dominerà la scena musicale, le donne? Anche nei territori del Papa, che le ha sempre vietate in scena? Dio ce ne scampi e liberi. Meno male che il mio maestro, monsieur Luigi Rossi è morto, e che a me comunque mi manca poco, a morire, e non vedrò di questi scempi. Non ci sarà più un poeta come La Fontaine, a celebrare la gloria del puro canto, cioè la mia.
Niert, qui, pour charmer le plus juste del Rois,
Inventas le bel art de conduire la voix
Et dont le gôut sublime à la grande justesse
Ajouta l'agrément et la délicatesse:
Toi qui sais mieux qu'aucune les succès que jadis,
Les pièces de musique eurent dedans Paris
Que dis-tu de l'ardeur dont la Cour échauffée
Frondait en ce temps-là les grands concerts d'Orphée
Les lons passages d'Atto et de Leonora,
Et du déchaînement qu'on a pour l'opéra?

Lo senti che bella questa poesia: tutta una celebrazione della mia arte e scritta quindici anni dopo che il poeta mi aveva ascoltato a Versailles. Anche se però poteva fare a meno di mettere nel mio stesso verso, solo per fare rima con Opéra, quella intrigante della Leonorà Baroni, che io avevo ben più acuti di lei. La Fontaine comunque lo sapeva che senza musici la vita sarebbe un giardino spoglio, un melograno senza pomi, un frutteto senza pere…
J: A parte che camperai centotrentanni e che ci seppellirai tutti, della poesia ho capito il concetto, ma le parole nemmeno una, a parte il tuo nome, ma se verrà il gusto dei soprani femmine in teatro, la vostra stirpe si estinguerà in fretta. Finora è piaciuto che la bellezza si pagasse con una ferita insanabile, con il dolore, la vergogna e la sofferenza, ma con il secolo nuovo, chissà? Forse trionferà la natura sull’artificio. Comunque, quando ci sei tu, io divento poeta e tu da come parli, invece si vede che ti influenza la campagna e ti esprimi come un fattore.
A: Si, e mi è già venuta a noia l‘Arcadia, che non ci sono nemmeno da un giorno. Se parlo come un contadino vecchio e pazzo, per metafore di frutta e fiori, sarà il caso che me la dia gambe e parta subito per Parigi. E comunque la natura non vincerà, l’artificio alla fine trionfa sempre, tutte queste smanie per la naturalezza sono l’ultima posa.
Angie ha una trombetta, che suona sguaiata, e l’azione si blocca.
ANGIE: L’artificio prima di tutto, non si discute (dice lisciandosi i boccoli, si pavoneggia avanti e indietro per la scena suonando la trombetta, poi vocalizza). Eppure sempre vengono i momenti di riflusso, quando qualcuno tediosamente chiede “natura, natura!” e allora quante brutte imitazioni della natura in palcoscenico che basta andar per strada per veder tutto. E a quel punto non si capisce proprio perché uno deve uscire di casa, che fa freddo, e andare a teatro. Comunque chi se lo immaginava che a cantare si rischiava grosso, Atto aveva sempre pensato che avrebbe corso rischi a fare la spia, ma invece a momenti ci lasciava le penne nelle vesti di primo soprano. A Parigi per strada aveva dovuto correre dopo la produzione de L’Orfeo del maestro Rossi, che era magnifica, ma era costata trecentomila scudi. I parigini infuriati volevano uccidere Atto, monsieur Luigi, gli scenografi e il coreografo. Tutti si sono dovuti nascondere. Nei giorni seguenti non si sono contate le mazarinades, un vero e proprio genere di largo successo di poesie irridenti e malevole, pamphlet da strada, che ci definivano ladri, parassiti e puttane.
Su un’aria barocca a scelta.

À la malheure, Mazarin,
Du pays d’où vient Tabarin,
Es-tu venu troubler le nostre!
Trousse bagage et vistement.
Va-t’en dans Rome estaller
Les biens qu’on t’a laissé voler.

Ah già, ma così non è chiara, visto che è in francese antico, la giro subito in italiano
In malora Mazzarino
Dal paese di Arlecchino
Troppo hai accapparrato!
A Roma armi e bagagli
Corri via con i tuoi sbagli
E tutto quel che hai rubato.
A Parigi, per via di Mazzarino, e un po’ anche per responsabilità di Atto, tutto quello che sapeva di italiano era diventato insopportabile. Si diceva che gli italiani fossero tutti sotto il segno di Machiavelli: cinici, perfidi, senza cuore. Chissà da cosa nasceva questa leggenda?
J: La tomba la vuoi davvero lassù, dove hai avuto tanti problemi, nel freddo e nel gelo, lontano dalla famiglia che ti vuole tanto bene? (carica le ultime parole, ironicamente) Chi vuoi che venga a metterti i fiori? Chi ti farà dire le messe di suffragio?
A: Qui non voglio essere sepolto, perché la mia vita si è svolta altrove, e le messe me le canteranno benissimo a Parigi. Mi sono già messo d’accordo con i padri cappuccini della Rue Saint-Honoré, che mi seppelliscano senza pompa. Ho lasciato nel testamento che me le dicano loro e anche i Teatini. Sto in una botte di ferro.
J: A proposito di messe cantate: l’hai sentito questo bel mottetto che ti hanno dedicato da poco a Pistoia (si mette a cantare, stonando, su una musica di trescone, sulla falsariga del finale Addio Carola, Carola Addio)
Ben si vide né v'adulo
Che seguendo il franco stile
La campana e il campanile
E il Batocchio havete in culo:
A: Sì, mi è piaciuta soprattutto la sofisticata e sinceramente inedita rima con adulo, comunque sei davvero stonato, e per di più volgare. Sai la novità: da queste parti l’invidia è l’unica musa. Peraltro me l’hanno scritta per lettera a Roma e mi sono imparato subito a memoria anche una quartina che sta dopo:
Chi vi sente senza fallo
Si dovrà meravigliare
E dirà come può stare
Che un cappon canti da gallo?
E di più di rosso e giallo,
vi abbigliate ognor la veste,
e farete ancor le creste
per parer a lui simile…
J: L’ironia non è proprio il tuo forte; a me quella canzone fa ridere, per me vuol dire che anche se non canti più da tanti anni, sei ancora famoso.
A: Essere famoso non mi interessa più da tanto tempo; quando ero ragazzo vivevo per quello, ora invece voglio restare sempre più nell’ombra per sapere i segreti del mondo.
SCENA QUARTA
1 gennaio, le due di notte
Di ritorno dalla chiesa.
J: In chiesa hai riconosciuto qualcuno?
A: Mais oui. Tutti, uno più brutto, bizzoso e vecchio dell’altro. Specialmente orrendo era Beppino, che sembrava il capriccio di un pittore fiammingo ubriaco e infetto di mal francese, ma lui era un mostro anche da bambino, e con l’età si è fatto pure gobbo. E come mi guardavano quegli zotici. Sembravano le furie e io come sempre Orfeo. Mi volevano prendere tutto, volevano tutti i miei segreti, mi avrebbero spogliato volentieri anche degli abiti, meno male che non mi sono vestito più elegante, se no mi facevano la festa sul sagrato per due pizzi e quattro nastri.
J: Ma figurati, i notabili a Pistoia i soldi ce li hanno. Se gli venisse la fantasia se li comprerebbero i pizzi, ma non credo proprio, visto che sono avarissimi e i vestiti li fanno durare per due vite. Però non ti vedevano da tanti anni, sono curiosi, in queste lande non succede mai nulla, e, a proposito, tutti si fanno la mia stessa domanda, che per ora rimane senza risposta: perché sei qui?
A: Per fare i conti con te.
J: I conti con me come fattore? Lo sai che i registri sono sempre in ordine, che ti mando ogni anno due volte le lettere di credito alla banca che mi scrivi. Mi hai sempre chiamato precisino, per la mia ossessione di avere tutto in regola, ora sospetti che in tutti questi anni ti abbia rubato i quattrini?
A: No, ti credo precisino come sempre, e con il passare dell’età anche meglio o peggio nella tua smania di dare ordine a tutto, e mettere le cifre in fila su colonne. Cosa vuoi che me ne freghi dei soldi? Meglio che li teniate voi, se qualche volta ne ho bisogno, te li mando a chiedere, come siamo d’accordo. Con la vita che faccio, non è il caso che mi porto dietro pesi, e nemmeno sacchetti di monete. Sono un bersaglio troppo ovvio per i tagliagole. Io viaggio leggero, ho solo la mia borsa da viaggio, vecchia e fedele, e i soldi preferisco che mi aspettino dove arrivo, con me ho solo qualche foglio, ma tutto quello che devo vedere lo mando a memoria, e poi lo brucio.
J: E allora cosa vuoi che ti racconti: del futuro dei tuoi nipoti? Sembra per il momento roseo: studiano tutti per entrare nell’amministrazione. Hanno avuto una borsa di studio dal Granduca.
A: Mi fa piacere, ma in fondo era previsto, naturel, con un babbo precisino come te. Non sei mai stato uno che spreca le risorse.
J: Vuoi sapere che succede a Pistoia? Cosa fanno le famiglie importanti?
A: Je t’en prie. A Pistoia sono successe due cose in tutto il secolo: la guerra di Castro con i cittadini che hanno ricacciato le truppe pontificie e l’elezione di Papa Rospigliosi, con qualche pistoiese che è andato finalmente a Roma a vedere il mondo. Poi ci sono i successi splendenti della nostra famiglia di castrati, invidiati e vituperati da tutti. Se no, qui non succede nulla di nulla.
Angie srotola una immagine con una mappa storica di Pistoia.
ANGIE Atto, sei ingiusto, quello che successe il 6 ottobre 1643 fu una data memorabile per la città e se ne parlò in tutta Italia. Il comandante De Valençay arrivò di notte per conto del Papa che si voleva impadronire di una testa di ponte contro la Parma dei Farnese, convinto di prenderla in un momento. E invece il condottiero si trovò davanti schierata tutta la città, che lanciò di tutto: (vocalizza ad libitum) forconi, zappe, falci fienaie, pendole, padelle, pennati, ferri da stiro, colpi di pistola e di cannone e meglio così, che quando quei soldatacci invadono non si mai dove si va a finire. Eroici, perfino, furono gli abitanti, in attesa delle truppe dei Medici che non arrivavano, ma poi tutto tornò come prima: una gran quiete.
J: Di che vuoi parlare, allora?
A: Mais c’est clair. Voglio parlare del destino.
(Pausa)
A: Se è stato giusto, o ingiusto. Insomma, ormai siamo vecchi e voglio capire.
J: Il destino per cui io sono rimasto l’unico della famiglia con gli attributi e ho fatto i figlioli e tu hai fatto la diva e la spia?
A: Voilà, alla fine ci sei arrivato. Tu hai mai capito perché il babbo ti ha risparmiato il destino di musico?
J: Perché qualcuno doveva portare avanti il nome della famiglia e perché fin da bambino ero stonato come una campana.
A: Ti ricordi di quello che ti dicevano gli altri di noi?
J: La famiglia delle forbici: ragazzi scappate via che arriva Domenico il campanaro, che ha le forbici in mano e vi taglia le palle. In realtà aveva sempre un laccio di cuoio in tasca, di quelli con cui si castrano i capretti, perché oltre ai fratelli, sei, tutti musici, e ai cugini, si occupava, con parcelle molto alte, anche di castrare vari figlioli di contadini, ma sempre tutto in segreto. Anche perché i quattrini in prospettiva erano la tentazione maggiore per le famiglie povere, ma la vergogna non si voleva che si sapesse in giro. Non potevano certo fingere che i coglioni li tagliassero per dedicare i figlioli a Dio: le forbici e i lacci erano per i soldi, che non bastano mai.
A: Quante volte ho visto gente che veniva a casa, per parlare con il signor campanaio e si sapeva di che. E mi guardavano, tutti, come per dire: hai visto, dopo, si diventa così!
J: A me del pettegolezzo non mi è mai importato, tutte le volte che mi parlavano di voi sperando che mi lamentassi, che borbottassi, “a loro tutto e a me niente”, restavano con un palmo di naso, perché dicevo invece che ero contento, entusiasta, e che eravate tutti onore e ricchezza della famiglia, e della città.
A: Come sei buono, a momenti mi commuovo e mi si sciupa l’acconciatura.
J: Crederci o meno dipende da te. Tu sei partito presto, qui per tanti anni non sei tornato, arrivavano le lettere, le gazzette mi raccontavano che trionfavi, che eri il nuovo Orfeo
A: L’unico.
J: Va bene l’unico. I pamphlet dicevano che eri un pervertito e un mantenuto, un intrigante e un politico, che eri bello, sventato e crudele: tutti segni sicuri di successo e io ero contento e soddisfatto. Ma non avevo con chi parlarne, se non con Bartolomea, la sera, prima di dormire, e a voce bassa, che i figlioli non sentissero, poi da diva sei diventato spia, e allora non c’era proprio più niente da commentare. Non mi sono mai concesso il lusso della curiosità, tanto non mi avresti detto proprio niente.
A: Carte in tavola. Non ti ho sognato, ma mi è venuto in mente di farti una domanda. È successo una sera che come sempre stentavo a prendere sonno, arrovellandomi su un segreto che non sono ancora riuscito a penetrare alla corte papale e che ha ora una grande importanza: tu hai mai voluto essere me? Questa domanda mi si è stampata in mente, e non me la sono più potuta dimenticare.
J: Sì, qualche volta ho sognato di essere a Parigi, favorito del gran re Luigi, ma poi ne avevo subito paura, anche nel sogno. Ero convinto di non essere all’altezza di quel mondo, non avrei saputo imparare quella lingua-cantilena che ti piace tanto e allora ero più contento di essere qui al Batocchio. Del fatto che tutti i miei fratelli fossero stati castrati, a parte me, io ho solo un ricordo, anche perché il babbo non voleva parlarne e la mamma svicolava alle domande e mi riempiva di schiaffi, l’unica memoria che mi resta non riguarda te.
A: E chi allora?
J Alessandro, che aveva otto anni meno di me, ho in mente che la mamma aveva preparato una gran tinozza piena di latte e ce l’aveva messo dentro. Lo carezzava e gli dava da bere un infuso di papavero, che dormisse senza fare brutti sogni, mentre il latte addolciva la pena del corpo. Io spiavo il rituale, ed ero un po’ invidioso di tutta quella tenerezza, che a me più che altro arrivavano ceffoni, a ogni momento, per qualsiasi minima mancanza. La violenza del laccio, però, era già successa, e quello era il seguito, ma Alessandro era tanto calmo e beneducato che sembrava più che altro lui a rasserenare la mamma. “Vedrai che andrà tutto bene, non ti preoccupare”, con una vocetta belante e incerta, che sembrava più di capretta che di essere umano.
A: Allez-hop! Io qualche volta ho voluto essere te, ma altrettanto subito dopo mi sembrava un incubo. Non mi ci vedo nel ruolo di padre autorevole e fattore, di precisino amministratore, sempre nello stesso posto per la vita. Se non scateno la fantasia, se non muovo i piedi, mi viene da soffocare.
J E allora tutti contenti come stiamo?
A Sì e no, troppo siamo stati zitti, sarebbe stato meglio parlare prima, ma ormai è andata così. Non c’è tempo per altri dettagli, mi basta che non ci sia rancore, in questo senso volevo chiudere i conti.
J Tutto qui? Me lo potevi scrivere anche per lettera.
A No, per una volta avevo bisogno di parlarti di persona, di stringerti le mani, di capire se qualche peso ci opprimeva al punto che vivevamo male, ora che siamo vecchi, quando la memoria pesa più del presente. Lo sai che questa è la prima e l’ultima volta che ti parlo di fantasie. Non me lo sono mai permesso: da qui in avanti ci scriveremo, come sempre, con circospezione, solo di interessi: grani, mele, porci e poderi, noci e castagne, prestiti e azioni.
(Jacinto lo abbraccia)
J Io non ce l’avrei fatta a fare la tua vita, anche per un fatto fisiologico: non sono proprio portato all’avventura clandestina a letto. Ne ho avuta qualcuna anch’io certo, ma cose pratiche da contadini, svelte, bollori dell’estate, due su e giù e nulla di più. La Bartolomea è stata tutta la mia vita; non avrei mai potuto saltare da un letto all’altro, per raccogliere segreti e per spiare, come hai fatto tu.
A Per me invece il sesso è stato poco più di un solletico, a me sarebbe stato difficile, se non impossibile, avere una storia d’amore per tanto tempo con la stessa persona, se non per interesse o per spionaggio, già tre giorni mi sono sempre sembrati un tempo insormontabile. Ma a Parigi, a Versailles, non si corre mai questo rischio. E ogni nuovo materasso vuol dire altri segreti e nuove informazioni: a tanta gente a letto gli si scioglie la lingua.
J: Buonanotte.
A: Lasciami il lume.
Esce.
SCENA QUINTA
1 gennaio mattina.
Atto fa una risatina, a scatti, come se nitrisse, si rende conto che è tardi e allora si blocca, di colpo. Arriva Jacinto.
J: Ti senti male? Vuoi che ti faccia il vino caldo con la cannella?
A: No, è che ho letto una storia e mi ha fatto ridere.
J: Per questo ero sicuro che stessi male, tu non ridi mai.
A: Già. Non mi succede spesso, ma questa storia è assurda. Te lo ricordi Pietrino Banchieri, che era famiglio di Papa Rospigliosi a Roma?
J: Quel ragazzo che sembrava una bambina, e che faceva sempre gli occhi languidi a tutti i contadini alla vendemmia?
A: Sì, che la sua mamma voleva a tutti i costi una femmina e chiamava ossessivamente il suo figliolo Maria. Dopo che il Papa lo ha fatto ritrarre in vesti di maschio e di femmina per la sua quadreria, è venuto un mezzo scandalo per una sua storia con uno svizzero e, quando li hanno separati a forza hanno trovato un diario in cifra. Poiché c’era stata una fuga di notizie su un investimento commerciale del pontefice, che aveva anche un aspetto politico, il ragazzo è stato sospettato di essere una spia. Per tramite d’una dama di compagnia della sua signora madre, una pagina del testo sequestrato è arrivata fino a me. È in cifra, lo sai cos’è un ave maria, vero? Sembra un testo devoto, ma se si sanno leggere le parole sotto, in latino, c’è qualcosa di totalmente diverso. Ci ho lavorato tanto, ma alla fine l’ho decifrato. Me l’avevano dato per capire se il ragazzo si era messo nei guai per la politica, ma queste sono solo vicende di sesso di una finocchina intraprendente, che non stonerebbero in un racconto di Boccaccio.
(Angie si fa avanti, vocalizza, batte le mani per reclamare l’attenzione di Atto e Jacinto, che si bloccano)
Questo, come tutti i segreti della Storia, spetta senz’altro a me. E poi per il boccaccesco, io ho sempre avuto un talento. (gorgheggia, ad libitum, tra un brano e l’altro)
“Al Monte Testaccio andavo a spiare i poveri e mi ricordo una puzza ostinata di cavolo marcio. Per gioco, per provare qualche brivido, perché la mia famiglia è sempre troppo formale, perché alla fine tutti quei domestici intorno mi erano venuti a noia, a Testaccio avevo scelto come mia madre immaginaria una donna laida, Immacolatina, che veniva dal reame di Napoli. Malgrado il suo nome era sozza come il fango della strada e sembrava una strega, sempre china su un suo unto e schifoso calderone, dove un po’ cucinava una sbobba senza nome e un po’ lavava i panni. Le stavo vicino per dei pomeriggi, poi quando non ne potevo più di immaginarmi povero scappavo via, tornavo alla biancheria perfetta di Palazzo Rospigliosi, ai domestici che mi riverivano e dicevano “signorino”. In questa doppia vita non mi mancavano gli incontri: passava sempre questo svizzero dal rione. La mia mamma immaginaria la prima volta credeva che si fosse perso e che cercasse il bordello di monna Sgricia, che avevo spesso visitato per spiare gli accoppiamenti dei soldati del nord, sempre così eccitanti e indecorosi con tutte quelle loro urla da porci scannati. Macché, altro che bordello, lo svizzero voleva me, mi aveva visto un giorno che avevo la sporta sotto il braccio che sembro un quadro d’un pittore della Fiandra e si era invaghito. Quando quella megera capì di che si trattava scattò sull’attenti, si tolse perfino quei capelli tutti ingrommati dal viso e sorrise, per quanto glielo permetteva la sua faccia patibolare. Una trattativa all’ultimo sangue, e io che mi divertivo assai a vedere la mia genitrice falsa che si dava da fare per vendermi al miglior prezzo e poi facemmo a mezzo, perché qualche soldo in più non guasta. Si chiamava Hansi, veniva dalle montagne e ci ha messo due settimane, da quanto era timido, a fare quello che doveva e io non sapevo più che scusa inventare per non fargli capire chi ero e mi inventavo il passato più patetico e sanguinolento, dicendo che ero orfano e che ero stato violentato pressoché in culla. Prima mi dava i bacini sulle guance, ma poi quando ha cominciato l’azione, non c’è stato più verso di farlo smettere. Un giorno che ero a passeggio con lui, mi notò il suo capitano, Peter, e mi prese con il ricatto, ma lui non mi piaceva, sapeva di caprone. Mi piaceva però lavarlo nelle parti intime prima di andare a letto, che quello lì proprio l’acqua e il sapone non sapeva che fossero, prima gli seccava, ma poi si distendeva e grugniva di piacere, proprio come un maiale”.
E qui mi interrompo, che poi si entra in dettagli anche più scabrosi.
Angie resta sullo sfondo. Atto e Jacinto riprendono la loro conversazione, come se niente fosse accaduto.
J: Cosa c’è che ti fa ridere? Non ti facevo pettegolo. Cosa te ne importa di questa storia di un ragazzetto infoiato che cercava l’avventura?
A: Mi fa ridere che il vecchio papa Rospigliosi credesse che il ragazzo dagli occhi di gazzella lo spiava per vendere i suoi segreti, e invece era solo a caccia di avventure con i maschi più robusti del circondario. Rido soprattutto di me che come uno stupido ho creduto che in quelle carte ci fosse qualche notizia importante e non era vero. I veri segreti del mondo sono difficili da scoprire.
J: Forse anche il vecchio aveva una passione per il bel Pietrino?
A: L’amour, toujours l’amour. Forse, ma non è per quello che rido. Le passioni altrui, lo sai, mi interessano solo come materiale di lavoro: se capisco cosa interessa a una persona, posso spiare meglio i suoi moventi. Per questo so tante vicende di letto: al momento opportuno dall’alcova si può passare al potere, se sai chi scopa con chi, puoi fare ricatti, seguire fili, ottenere notizie. Mi è sempre piaciuto osservare gli altri; in tutti quegli anni a cantare, quanti capricci, quante follie ho visto nelle corti. Rido perché tutto è solo e sempre un teatro delle ombre. I motivi delle azioni delle persone restano la maggior parte delle volte misteriosi, e qualche volta si lavora tanto per squarciare un velo, ma la verità non ha nessun interesse. Ci ho messo più di un giorno a leggere questa pagina, e il risultato è stato solo noia.
J: Cosa vuoi a pranzo oggi?
A: E dagli con il mangiare, parto quando vi mettete a tavola, così vi saluto tutti, ora devo andare a camminare, per la linea e per vedere se risolvo l’enigma che mi arrovella.

SCENA SESTA
1 gennaio, ora di pranzo
Jacinto legge attentamente gli spartiti di Atto sulla tavola, prende appunti su un suo quaderno, Atto gli arriva, facendo piano, da dietro e lo fa sobbalzare. Lo prende alla gola e lo stringe.
A: Bastardo, ma allora la sai leggere la musica.
J (con voce soffocata) Lasciami.
A: Da quanto è che mi spii? (non allenta la presa)
J Da sempre. Tutte le volte che sei venuto qui, ho preso più che ho potuto, ma sono sempre state frasi sparse, e tra un discorso e l’altro sono passati anni. Non sono mai riuscito a ricostruire tutta una storia, mi è rimasta una collezione di sentenze slegate, con nomi di paesi lontani.
A A chi li vendi i segreti?
J A nessuno. (Lascia la presa, Jacinto respira)
A E allora perché? Perché scrivi tutto su quel tuo quaderno nero con quella scrittura ordinata da precisino?
J Per capire.
A: Cosa?
J: Per capire il tuo mondo, quello che pensi, però non ci riesco, non ci sono mai riuscito davvero a capire quello che ti passa per la testa.
Atto si calma, Jacinto si siede.
J (si siede anche lui) Forse, senza saperlo, eri venuto per questo. Per scoprire questo segreto.
A: Come hai fatto a imparare la musica?
J Me l’ha insegnata il prete, per divertimento e io mi ci sono applicato di nascosto, con voi fratelli musici è sempre stato il mio segreto. E poi un altro prete mi ha insegnato a decifrare gli avemaria. In quello non sono tanto bravo, ma mi appassiona provarci.
A: Quando hai capito che nei miei spartiti c’era qualcosa di diverso dalle arie di Jacopo e dagli oratori di Alessandro?
J: Presto, e allora ho cominciato a scrivere nel mio quaderno quello che capivo, non tutto, perché negli anni sei diventato sempre più bravo a mettere le cose in cifra. Quando mi hai sorpreso, ero a metà di una frase: “che il gran elettore di Sassonia….”, ma non capivo proprio cosa veniva dopo.
A: L’elettore ha bisogno di soldi, vuole tradire, ma non sa a chi vendersi alla Dieta di Ratisbona, te lo segni sul quaderno bastardino?
J: Sì, se no non sarei precisino, di questo quaderno non ho mai parlato né alla Bartolomea né ai figlioli, l’ho sempre e solo tenuto per me, è la mia ultima nota, poi brucio tutto.
A: Anch’io devo bruciare questi spartiti di spionaggio, alle fiamme tutti questi fogli. Questo è il primo giorno di un secolo nuovo, in cui tutto cambierà.
J: Giusto, tutto in cenere.
Strappano i fogli e li bruciano, lentamente, a lume di candela.
A: Tutto finito, polvere alla polvere, non resta traccia di niente. Ci resteranno i ricordi. Non ci vedremo più. Parto per Parigi, e non tornerò nemmeno da morto, ma ci sentiremo per lettera.
J: Ti sognerò, come facevo da ragazzo quando tu, Jacopo e Alessandro siete andati via, per il mondo, al servizio del Granduca.
A: Ma non avevi rancore, che tu restavi qui nelle campagne e noi correvamo al successo, al lusso?
J: No, perché non avevo né il carattere, né il gusto dei teatri e delle corti. Mi è sempre piaciuto vivere più tranquillamente, con meno pompa e meno problemi.
A: Et alors in fondo ci legava l’ombra, dove a tutti e due ci piace di stare.
J: Forse e poi non avrei mai potuto imparare a memoria tutte quelle lezioni di trucco e parrucco che mi aveva raccontato Jacopo: “l’uomo ha l’occhio nero accalamarato, per via che è libertino e si dedica al vizio, il colorito deve essere bianco di spettro, un solo neo, se no non è virile. Mentre la donna è rosa, di rosa mammola, che vuol dire pudicizia, la donna di qualità ha otto nèi tutti sulla faccia, non vi preoccupate c’entrano”.
A: Mi sembra che te le ricordi benissimo le lezioni del maestro di arte scenica, allora mi hai sempre compatito perché ero musico e ti facevo pena?
J: Nemmeno, lo so che non credi a nessuno, che sospetti di tutte le parole e di tutte le persone, ma io ti ho sempre voluto bene.
A: E allora, visto che sai la musica, canta con me un lamento funebre per il secolo nuovo, in cui forse né io né te avremo un posto.
J: Anche se so la musica, resto comunque stonato come una campana.
A: Non ti preoccupare, canta più piano di me, segui il mio ritmo e se non ti riesce a cantare, mima.
(Parte la musica del finale de l’Orfeo di Luigi Rossi. I due recitano il testo insieme, qualche volta all’unisono, altrimenti uno di seguito all’altro).
E voi, del Tracio suol piagge ridenti, Ch'imparando à gioir dalla mia Cetra Gareggiaste con l'Etra Hor all' aspetto sol de miei tormenti D'horror vi ricoprite. E tu, Cetra infelice Oblia gli accenti tuoi già si canori E per ogni pendice vien pur meco piangendo i miei dolori. son le gioie per noi tutte smarrite. Lasciate Averno o pene, e mè seguite. Ma che tardo a morire ? Se può con lieta sorte ricondurmi la morte alla bella cagion del mio languire? A morire!”
A e J (all’unisono, senza musica): Morire, dovremo per forza, presto, però, fino ad allora, ricordiamoci sempre di noi così, sulla soglia, uniti da questa musica, che si sente, sia pure flebile, anche nel gran rumore del vento del secolo nuovo, che rapido tutto cancella.
I due fratelli si guardano a lungo, la luce cala lentamente, Atto spegne le candele e esce lentamente dalla porta con la sua borsa, intorno un gran rumore di vento. Angie rimette a posto quello che è rimasto intorno alla scena, lo pone sul tavolo, infine cessa il rumore di vento e canta l’aria finale (o la mima, a scelta da Il trionfo del tempo e del disinganno di Haendel), che ha il titolo Tu del ciel.
Esce Angie, portando con sé la luce, la scena lentamente va a buio, ma Angie rimane con una piccola luce di candela in mano, quando sfuma canticchia, per dispetto al suo nome, in stile settecentesco Goodbye Ruby Tuesday dei Rolling Stones, infine soffia sulla candela, silenzio. Nella scena vuota risuona la voce dell’ultimo castrato, Alessandro Moreschi, che canta l’Ave Maria.
FINE