Madame Celine
Madame Céline, ovvero il ballo della malora.
Una stanza, ingombra di oggetti alla rinfusa, piena di animali, vivi e impagliati, suono continuo di animali. Cani che ringhiano, un pappagallo che parla in modo sconnesso, gatti che stridono. Madame Céline è in abito da sera, ma sotto ha i pantaloni, gioca tra ruoli e sessi senza rispettare le regole, può essere in vestiti maschili quando danza e in abiti femminili quando tiene comizi. In lei sono fusi il profeta furente Louis Ferdinand e Lucette Destouches, danzatrice e didatta. L’arrivo della seconda, segnato nel testo da una L. è data dalla presenza nella colonna sonora di musiche di danza, ma come arriva, poi scompare, senza dare spiegazioni di sorta. La sua presenza completa il ritratto. Va da sé che i suoni e i rumori possono essere quelli effettivi, o anche solo essere accennati, mugolati dall’interprete, possono essere scritti e proiettati, o anche solo immaginari, didascalie personali, appunti per l’immaginazione. Céline parla come nei suoi romanzi, le frasi si possono interrompere e i puntini di sospensione sono sempre presenti, tutte le volte che viene fuori un momento di furia, o di esitazione.
La malora, l’unico ballo che vale la pena di ballare è quello della malora. Già che a noi bretoni ci interessa molto di più la morte che la vita… i morti che i vivi. Io sono un celta, sono visionario, così come piscio posso raccontare con facilità disgustosa leggende. I vivi sono sospetti con tutte quelle manfrine, quei vezzi che hanno. E poi vogliono sempre ragione, hanno la smania del successo.
Pausa
Nel mio buco, io rifletto. E’ questo la prigione; riflettere… potrei averne tanti, di ricordi acidi… guardate le gabbie!... migliaia no! Milioni di persone che sono state in gabbia tutti questi tempi!... milioni che andranno ancora!... A quattro zampe ragazzi! Ecco qua! Quattro zampe! Sospiri? L’era animale è qua! E dunque! La Zoologia delle persone! Strisciare o la morte! Le conto più le porcate di Giustizia… Ho avuto cinque o sei “Non luogo a procedere”, fatti fuori dalla giuria con un colpo di tosse… Conosco almeno cinquanta mentecatti che si sarebbero impiccati per molto meno di quel che ho subìto … ristagno, impùtrido, mi spelo…
Pausa
Deve essere passata mezzanotte… sento pestare i detenuti! Sento ululare le civette! Sento le sirene del porto! ... e i gufi del cimitero… Ma stoico, armonioso, amabile… so dei trucchi!... mi ricordo… quello che rimpiango qua, bocconi al suolo ascoltando la pietra, è di non aver visto abbastanza!...
Pausa
Quando stavo in Danimarca, e facevo il principe Amleto nella casupola della spiaggia, tremando di freddo e di fame, l’ho capito una volta per tutte come sono fatti i vivi. Ti inculano appena possono altroché. Quando siamo arrivati a Copenhaghen dopo tutta la fame a cruccolandia, mi sembrava il paradiso, che tutti mangiavano uova e formaggio, pane, burro e marmellata, frutta e caffè, roba che non vedevamo da due anni. Io avevo depositato tutti i miei soldi là molti anni prima, avevo pensato: tanto quelli sono neutrali. Macché, neutrali un cazzo! Mi hanno fregato tutto con il ricatto, minacciavano di rimandarmi in Francia se protestavo e mi sono trovato povero in canna. Come si faceva: meglio miserabile sul mare del Nord che morto a Parigi.
Una musica di danza, come il Lago dei Cigni di Čaikovskij.
L No cocchina, no. Te l’avevo detto: non mangiare troppi macarons alla comunione di tua cugina che poi gli arabesques non ti vengono bene. In questo brano di Giselle sono tre posizioni, quella importante è l’arabesque. Devi essere come un geroglifico. Guarda il gatto Bebert, lui la sente la musica e la fa sentire anche a me. Non piangere, piangere non serve a niente. L’unica cosa che serve è l’esercizio, costante e regolare.
Cani e gatti insieme.
La Danimarca era il buco del culo: nella capanna sulla spiaggia il vento continuo mi bruciava il cervello, all’inizio non riuscivo a scrivere, nemmeno una lettera, poi mi sono abituato. Anzi, poi mi faceva compagnia, il vento. All’inizio mi sembrava un sogno: quanto ci abbiamo messo a arrivarci… c’era la fine della guerra. La Germania bruciava da una parte all’altra. Ma io lo sapevo che se restavo in Francia facevo una brutta fine, ero il nemico pubblico numero due. Il numero uno, Brasillach, l’hanno fatto fuori di volata. Due colpi in testa e chi si è visto, si è visto. Sai che gli fregava che prima di morire avesse gridato Vive la France, sai che gli fotteva dei meriti letterari, anzi quella era una colpa in più. Allora, Ferdinand, gambe in spalla e pedalare. A Siegmaringen le fiamme ci hanno pelato il culo, era tutto un solo urlo. Io sono un dottore, ma quello che restava della gente presa dagli spezzoni incendiari non si poteva curare, al massimo seppellire, se proprio avevi tempo. Ma tempo non ce n’era. Ai crucchi non fregava un cazzo di noi, che poi a me i crucchi non mi sono stati mai simpatici: gli avevo sparato contro volentieri nell’altra guerra. Dicono che ero sul libro paga dei tedeschi, figurati. Sul serio rapporti con i crucchi io li ho avuti solo nel ’14,come soldato volontario Tre mesi dopo l’inizio della guerra ero ferito, riformato al 75%, e ricevevo la medaglia al valore… Poi mi hanno tolto tutto, tranne le cicatrici, e le malattie che mi erano venute, quegli stronzi.
Pausa.
Però non si poteva fare altro. Meno male che Bebert, il gatto, c’era sempre. Il suo miagolio era l’unica cosa umana che mi faceva scordare per qualche minuto quel suono che me lo ricordo anche negli incubi: un ron ron regolare che veniva da lontano, e che diventava sempre più potente. Le fortezze volanti degli americani, che quando si vedevano lanciavano gli spezzoni incendiari e noi giù a correre. C’era un treno pieno di bambini mongoloidi svedesi, i crucchi li volevan far fuori con la scusa dell’eugenetica, ma io mi sono venduto una storia agli ss che sbraitavano dicendo che ero il medico e che i mongo erano svedesi e non li potevano toccare. Così siamo partiti dalla stazione mentre le rotaie bruciavano, e i mongoloidi urlavano come bestie scorticate, e quelli che riuscivano ad articolare una parola dicevano “mamma”, ma si faceva fatica a capirli nei loro muggiti straziati.
Una musica di danza orientale, indiana, dal repertorio Kathakali. Lucette balla la danza della dea Kalì.
L Lo so che tanti non capivano come era possibile che Louis mettesse Bebert il gatto e me sullo stesso piano, che ci dedicasse lo stesso numero di pagine, ma anche lui ballava, sapeva sempre il gesto perfetto, quando doveva stare fermo nel cesto, e quando doveva tirare fuori la zampina per dare conforto.
Pausa
Io avevo studiato danza classica, ma era il mio nome che mi guidava: Almanzor era il mio DNA. Profumava di Granada, dove non sono mai riuscita ad andare, di gelsomino, di donne velate. Per questo mi piacevano le danze indiane: mi coloravo il corpo con un cerone scuro, avevo nei capelli spilloni dorati e mi contorcevo per la gioia delle prime file del TeatroAlhambra. Louis mi vide la prima volta e mi venne a chiedere se non mi facevo male, con tutti quei contorcimenti a suon di nacchere. Louis voleva essere un ballerino, ma per via delle ferite e delle malattie prese in Africa, si muoveva male, non controllava il movimento. Però era sicuro di quello che voleva fare, di ballare con le parole: “voglio continuare a fare il clown sul trapezio, lassù a quarantacinque metri”.
Il rumore di una bomba che va verso terra.
È vero che io guardavo la danza, ho sempre amato le ballerine… e allora?... che stavo al Cafè de la Paix a spiare quando entravano e uscivano, già… le loro forme fuori carne, miraggi, mica esseri lì proprio di polpa!... mica che restano che vanno!... e allora?... Tutte le allieve venivano a Meudon per la danza, per la coreografia spietata! Dottrinata, prego!... non per piccoli esercizi dolci! No! Certi equilibri, estensioni! Elevati in “quinta”!... sviluppati “seconda” sulla punta! Che ne tremavano le piccole, estenuate, sudate… l’ora dei supplizi!...La capisco io la purezza della danza… ho la mia piccola religione della danza! Dove si andrebbe morti, senza danza!
Pausa
Tanto per me in fondo solo le ballerine sono importanti. Sono loro che mi hanno insegnato il ritmo. Sono loro che mi hanno fatto capire i tre punti di sospensione, che mi hanno spiegato che la frase si può interrompere, spezzare, riprendere, manipolare, buttare… avevo questo amico dottore, Leo Gutman. Il maestro dello scolo e delle creste di gallo, sapeva tutti i segreti più squisiti di Parigi. C’aveva una pazienza… io ero sempre a parlare contro gli ebrei, e di qui e di là…. E lui era evangelico: “nulla mi ferisce da parte tua, Ferdinand”. Lui aveva un potere, a forza di curare vecchie cappelle rovinate dal troppo sfregamento e praticare aborti di ballerinette che s’erano ritrovate dentro l’arnese di qualche cascante impresario in fregola che non aveva saputo uscire in tempo, aveva conosciuto il direttore dell’Opéra. Io deliravo per il tutù, una danzatrice di Degas me lo faceva venir duro subito. Allora mi misi a scrivere dei libretti per le ballerine. Io c’avevo la bava alla bocca: Lèo, Lèo, ebreuccio mio, per arrivare al divino piacere farò di questa terra, di questo cadavere in fondo alle nuvole, una stella di prima grandezza, non indietreggerò di fronte a nessun miracolo. Lo sapevo bene, io, che dovevo stare attento, che le ballerine sono difficili, suscettibili, delicate. Allora ce l’ho messa tutta: ho scritto una trama di tutù e fatine, ma niente. Gli ebrei dell’Opèra non mi hanno voluto dare le ballerine, avevano paura che gliele rovinassi, che gliele rendessi con le alucce bruciacchiate.
Pausa
Eppure In una gamba di ballerina, il suo mondo, le sue onde, tutti i suoi ritmi, le sue follie, i suoi desideri sono iscritti!... Il poema più ricco di sfumature che sia mai esistito! Commovente! Il poema inaudito, caldo e fragile come una gamba di ballerina in movente equilibrio, è in linea con la risonanza del più gran segreto, è Dio! E’ Dio stesso! Nientemeno! Ecco il fondo del mio pensiero! A cominciare dalla settimana prossima, appena pagato l’affitto… non voglio più lavorare che per le ballerine… tutto per la danza!... In una gamba di ballerina, il suo mondo, le sue onde, tutti i suoi ritmi, le sue follie, i suoi desideri sono iscritti!... Il poema più ricco di sfumature che sia mai esistito! Commovente! Il poema inaudito, caldo e fragile come una gamba di ballerina in movente equilibrio, è in linea con la risonanza del più gran segreto, è Dio! E’ Dio stesso! Nientemeno! Ecco il fondo del mio pensiero!
Una musica di charleston. Lola non andare a scuola
Quante volte me lo ripeteva: lasciami in pace scema, non siamo mica all’Opéra Comique. Perché gli avevo chiesto se potevo far rappresentare dalle mie allieve il suo libretto coreografico Paul canaglia, viva Virginia, ma non voleva proprio sentirne parlare, gli bruciava ancora, dopo tanti anni, di non averlo potuto realizzare all’Opèra. Quando eravamo sulla capanna del Baltico, nel freddo e nella fame, la sua sola consolazione era la lingua francese. Era lei il suo primo amore: quando arrivava una lettera da Parigi la assaporava come se fosse stato fois gras, e se riusciva a prendere un programma della radio francese, piangeva di felicità.
Gatti miagolano, sempre più intensamente.
Sì, certo, il francese mi serve come il sangue nelle vene, però c’è francese e francese, odio quello “di stile”, quel francese disadorno dei ricchi che hanno fatto gli studi regolari che è il corsetto assolutamente indispensabile che sostiene quei castrati emotivi, è il rifugio impeccabile del loro vuoto, che chiamano stile, rigida montatura d’impostura senza la quale si troverebbero letteralmente sprovvisti, istantaneamente dispersi dalla vita brutale. Il francese da liceo, è la lingua ideale per i robot, per quegli eunuchi da liceo che sanno sempre come fare i soldi a palate… sempre il falso, il fittizio, la robaccia ignobile si contrabbanda alle folle, la menzogna, sempre mai l’autentico… Io mi sono messo a scrivere perché era Il porto delle nebbie che parlava di cose vere. Ho detto anchio e mi è venuto fuori un mostro di mille pagine, la scoperta dei puntini mi è venuta naturale. Quando faccio un libro, vedo in anticipo la porta, le finestre, il tetto. Tutto quanto nella testa, prima di cominciare, riga per ruga. E poi mi dovevo mica scervellare sul tema: raccontavo la mia vita, mettevo in scena il mio personaggio. Con le giuste modifiche, si può solo modificare in letteratura. Le copie sputate dell’esistenza sono scialbe, inespressive. Bisogna modificarle le cose, per dire la verità.
Pausa.
Chi non ha voglia di ballare una disgrazia certo ha da confessare. L’ho imparato quando andai in Russia, che mi avevano tradotto in sovietico come gli pareva e potevo spendere i soldi dei diritti solo là, che per quelli là bisognava ballare tutti allo stesso ritmo. L’esistenza comunista è l’esistenza in musica, e allora bisogna ballare tutti, basta zoppi a rimorchio. Basta con le vergogne, il silenzio, gli odi, le rogne, i casini, un gran ballo per la società tutta intera, tutta intera senza eccezioni. Più nessun minorato sociale, nessuno che guadagni meno degli altri, che non possa ballare allo stesso ritmo. Quando ho scritto della Russia i soliti leccaculo hanno scritto che avevo tradito, ma che?Chi? Non ho mica mai detto ti adoro mio Stalin, ma se non ho mai votato in vita mia… L’ho vista la miseria russa, non è immaginabile, asiatica, dostoevskiana, un inferno putrido, aringhe salate, cetrioli e delazione… Il russo è un carceriere nato, un cinese fallito, aguzzino. Il povero qui striscia ancora… s’appiccica sulle vetrine… facce da sputo… l’enorme, vischioso, brontolante brulicame dei miserabili… lungo le immondizie… un incubo che si sparpaglia come può… cola da tutti i crepacci… l’enorma lingua d’Asia leccante le fognature… assorbe tutti i ruscelli, i portici, le cooperative… E’ lo spaventoso strofinaccio Tatiana Fame… Miss Russia… Gigante… grande come tutte le steppe, grande come la sesta parte del mondo… e che agonizza… Io lo ripetevo a tutti che quello era un paese atroce, che avrebbe fatto schifo anche ai maiali viverci, la mia interprete, Natalia, una bella bionda, mi voleva convertire, era talmente convinta che avrebbe ammazzato per arrivare a quello che voleva, ma io gliel’ho detto che non avrei mai ballato al suo ritmo eccheccazzo (parla sempre più rapidamente, allo stesso tempo balla una mazurca indemoniata). Com’è magnifica Leningrado però… Non son loro che l’han costruita, i rossi di Stalin… Non riescono nemmeno a conservarla, ad accudirla… E’ al disopra delle forze comuniste… Tutte le vie sono sprofondate, le facciate delle case cadono in frantumi… Fa pena… Nel suo genere è la più bella città del mondo… tipo Vienna… Stoccolma… Amsterdam… per capirci. Come esprimere tutta la bellezza del porto?... Immaginate i Campi Elisi… ma quattro volte più grandi… inondati di acqua pallida… la Neva… Essa si estende ancora… laggiù… verso il largo… livido… il cielo… il mare… sempre più lontano… l’estuario in fondo… all’infinito… il mare che sale verso di noi… verso la città… Il mare tiene in mano tutta la città!... diafana, fantastica, tesa… lungo le rive… tutta la città… palazzi… ancora altri palazzi… rettangoli duri… a cupola… marmi… enormi gioielli duri… accanto all’acqua smorta… A sinistra un piccolo canale scuro… che si getta là… contro il colosso dell’Ammiragliato…L’acqua sfora i bordi, s’increspa, rabbrividisce contro le pietre…
Musica di mazurca o polka.
Diceva sempre che ero: “la sua Ofelia nella vita, la sua Giovanna D’Arco nell’azione”. Tutti e due signore con la testa nelle nuvole, figuriamoci. Ero io a mandare avanti la baracca, altroché! Quando Gaston Gallimard non mandava gli assegni regolari, meno male che davo lezione di danza alle ciccione di periferia. Nove ore al giorno, dalle 9 alle 1830, con mezz’ora di pausa per il pranzo. Però va detto che si faceva in quattro perché potessi avere qualche uovo.
Un respiro pesante, ripetuto, quasi un rantolo asmatico.
Io sono come il dottor Semmelweis, che ci feci la tesi di laurea in medicina da ragazzo. Quello lì lo sapeva benissimo che si andava a mettere nelle rogne, ma non è mica stato zitto. Macché, ha dovuto parlare, e ha parlato, contro tutto e contro tutti, ma soprattutto contro se stesso, che uno ci deve avere anche una qualche passione per la rovina, per prendersela tanto a cuore per qualcosa che lo porta al disastro. Aveva scoperto una cosa semplice, come una rivoluzione. Che se si toccavano le puerpere con le mani sporche, come facevano i dottoroni dell’epoca sua, quelle morivano di febbri. Gliene fregava un cazzo, tanto, alla gente: i maschi in fregola se gli moriva la moglie di parto, prendevano di forza un’altra disgraziata e gli infilavano dentro l’arnese. Due colpi svogliati, e quella era incinta, se non c’aveva malanni e malformazioni, senno erano cazzi suoi. E via un’altra infezione: insomma a quel Semmelweis gli fecero vedere i sorci verdi. Lo rovinarono, lo misero alle strette, gli tolsero il pane… Eppure era un poeta della bontà, più realizzatore degli altri. E io che ho scoperto? Una cosa semplice, come una rivoluzione: che bisogna parlare, a ogni costo, anche se quello che dici ti distrugge. Per forza qui, cosa dopo cosa, divento un tantino personale… per così dire quasi intimo… Scusatemi! Magari vi offendo, conosco mica la vostra professione, il vostro gusto, le vostre piccole cose, il vostro rango… Non conosco il vostro pedigree.
Pausa
A me è sempre piaciuta la strada, altroché i salotti pieni di merda. Che si fa di solito per strada? Si sogna. Si sogna di cose più o meno precise, ci si lascia trascinare dalle ambizioni, dai rancori, dal passato, è uno dei luoghi più meditativi della nostra epoca, è il nostro santuario moderno, la strada.
Una canzone di Fragson o Fragson di Barbara. Lucette balla, trasognata.
L Alla fine, di tutta la storia della guerra e del dopoguerra, c’è andata di mezzo la casa che avevamo lasciato le chiavi al portiere e erano entrati dentro e l’avevano fatto fuori l’appartamento e la mamma, che Louis, con tutti i suoi ringhi, era legatissimo, altroché. Era un amore feroce, esclusivo: i parenti dicevano che aveva usato i suoi genitori in modo vergognoso in Morte a credito: mangiavano la pastasciutta e poi andavano in barcam e allora se la vomitavano addosso. Ma quello era amore, amore vero.
Musica: da lontano, Plaisir d’amour di Martini, cantato da Elizabeth Schwarzkopf.
Mia madre, faceva i merletti un lavoro eccezionale, lunghissimo, di una precisione! Ora li fanno a macchina i merletti, una vera merda, altroché. Io non sono mai stato contento di niente, ma ero contento, quando portavo i merletti di mia mamma alle clienti, c’era l’orgoglio di una cosa ben fatta. Ecco, il suo locale in rue Thérèse 14, che occupava da quarant’anni, ho cercato di sapere qualcosa… Eh eh!... mi si è risposto, gente molto perbene… prudenza! prudenza! E poi forse quindici giorni dopo: “Sua madre è morta su una panchina… ecco qua! E stia zitto… io però non posso abituarmi a questa tristezza… è sotterrata al Père-Lachaise, viale 14, divisione 20… Accetterei volentieri un “lasciapassare”… giusto il tempo di andare a vedere la lapide… Tutto è sopraggiunto in un modo… non ha mai saputo cosa mi fosse capitato… le porterei un vaso di margherite… era il suo fiore la margherita… Marguerite Louise Céline Guillou… E’ morta di dolore di me e di sfinimento di sforzo al cuore… palpitazioni, inquietudini… di tutto quello che si diceva… figuratevi! La gente dell’avenue de Clichy!... le panchine… l’opinione pubblica!
Cani abbaiano, il suono va e viene.
Zitti, cani di merda, zitti che vi mando tutti ai cinesi che vi mangiano con la glassa, con le patatine di contorno. No, che ne so se c’hanno le patatine, quelli là… Faccio collezione di cani storpi che mi mandano dal canile. Quelli lo sanno che sbraito, sbraito, ma alla fine li prendo, e allora me li fanno arrivare. Uno senza la zampa davanti, uno senza la zampa di dietro, uno guercio, uno senza le orecchie: mi fanno anche schifo, che mi trasformano la casa in una porcilaia. Mica li tengo per farmi la guardia: li tengo per il casino che fanno, perché non riescono mai a abbaiare a ritmo. Però sono umani, più degli esseri che non mi sono mai tanto fidato, e c’avevo ragione, perché me l’hanno sempre messo in culo. L’ho imparato in Africa: quando tutti c’avevano la loro bocchinara indigena personale, che le preghiere e la morale erano tutta una scusa per metterglielo in bocca a ogni momento. Ho capito lì che era il fardello dell’uomo bianco: stronzate su stronzate di onore e bandiera per un po’ di su e giù nel pomeriggio, quando i maschi bianchi con famiglia a carico non riuscivano a concentrarsi per il troppo sudore e a far soldi per sé fingendo che fosse per il bene della patria.
L Da bambina andavo sempre allo zoo, al Jardin des Plantes, con la mamma. Mi piaceva un vecchio elefante che disprezzava i visitatori, e se uno gli voleva carezzare la proboscide, quello gli sputava in faccia. Quando sei stato tanto con gli animali, gli esseri umani fanno solo paura. A Meudon, a casa, il bagno era pieno di uccellini di ogni tipo, erano i cantanti della mia voliera.
Pausa
L’Africa è un equivoco, una presa per il culo, e dire che quando mi avevano chiamato a lavorare, mi era venuto duro dalla gioia, avevo pensato: là alla fine potrò essere quello che voglio, basta con quelle stronzate di ricchi e poveri, di giusti e sbagliati Sì, figurati… Però è bella, l’Africa, altroché se è bella. I tramonti di quell’inferno africano si rivelano straordinari. Non te li toglie nessuno. Ogni volta tragici come mostruosi assassinii del sole. Un immenso bluff. Soltanto che c’è troppo da ammirare per un uomo solo. Il cielo per un’ora si pavoneggia tutto spruzzato da un capo all’altro d’uno scarlatto delirante, e poi il verde scoppia in mezzo agli alberi e s’innalza dal suolo a strisce tremanti fino alle prime stelle. Dopo di che il grigio riprende tutto l’orizzonte e poi di nuovo il rosso, ma allora stanco il rosso e non per molto. Finisce così. Tutti i colori ricadono a brandelli, afflosciati sulla foresta come vecchi stracci alla centesima replica. Ogni giorno verso le sei è esattamente così che va. E la notte con tutti i suoi mostri entra allora in ballo tra mille e mille rumori di gole di rospo. La foresta aspetta solo il loro segnale per mettersi a tremare, fischiare, muggire da tutte le sue profondità. Un’enorme stazione amorosa e senza luce, piena da schiattare. Alberi interi gonfi di scorpacciate viventi, d’erezioni mutilate, d’orrore.
Canticchia Allons enfants de la patrie. Parla sempre più veloce, si mangia le parole, certe non si capiscono proprio.
Poi il borghese europeo, quando era stanco della bocchinara, spiegava ai capitribù che era l’epoca della macchina, e che anche loro nelle tribù ce le avrebbero avute. Siamo nell’epoca della macchina, ma quella è l’infezione in carne e ossa. La disfatta suprema, che balla! Che bidone! La più perfetta delle macchine non ha mai liberato nessuno! E figurati gli indigeni! Abbrutisce l’uomo, lo trasforma in bestia senza pensiero e senza cervello. Fidarsi delle macchine è solo una scusa in più per continuare a mettertelo nel culo sempre più in fondo, al sangue. E poi devi essere contento, perché il sol dell’avvenire è sempre bello: sì, e sorge dal culo.
(Pausa)
L Louis era un essere disperato, di un pessimismo totale, che nello stesso tempo ci dava una forza incredibile. C’era in lui una intensità della tristezza che tutti sfuggivano. Io sono rimasta perché non ero veramente nel mondo; avevo dato tutto alla danza. Lui aveva perso un orecchio in guerra, e sentiva dentro di sé le voci. Continuava a scrivere quei pamphlet deliranti, visionari, esasperati: a casa la posta ci recapitava bare di tutte le dimensioni. Io gli dicevo: guarda che ti mettono un coperchio sopra la testa, e poi è finita. Ma lui niente, era sempre fedele alle sue voci.
Pausa
Ci si può perdersi andando a tentoni tra le forme nascoste. E’ spaventoso quante ce ne sono di cose e persone che non si muovono più nel tuo passato. I vivi che si smarriscono nelle cripte del tempo dormono così bene con i morti che perfino un’ombra già li confonde. Non si sa più chi risvegliare quando si invecchia, se i vivi o i morti.
Allora i sogni affiorano nella notte per andare a incendiarsi nel miraggio della luce che si muove. Non è affatto la vita quel che accade sugli schermi, resta dentro un grande spazio torbido, per i poveri, per i sogni e per i morti. Bisogna fare in fretta a ingozzarsi di sogni per attraversare la vita che vi aspetta fuori, usciti dal cinema, resistere qualche giorno in più attraverso quell’atrocità di cose e uomini. Uno sceglie tra i sogni quelli che gli riscaldano meglio l’anima. Per me, lo confesso, erano quelli sporchi. Non bisogna esserne fieri, ti porti via da un miracolo quello che ti puoi tenere.
La vera giovinezza, la sola, è amare tutti senza distinzioni, questo solo è vero, questo solo è giovane e nuovo. Ne conoscete di giovani che siano messi così? Io non ne conosco affatto!... Dappertutto non vedo altro che delle nere e vecchie corbellerie che fermentano in corpi più o meno freschi, e più fermentano ‘ste schifezze e più i giovani si sconvolgono, e più si convincono allora di essere straordinariamente giovani! Ma è niente vero, sono fregnacce… Sono soltanto giovani come possono essere dei foruncoli per il pus che gli fa male dentro e li gonfia.
L Negli ultimi tempi, che ormai stava male, malissimo e ansimava per qualsiasi movimento, studiava i Catari. Quelle storie antiche di gente murata e bruciata viva per le loro idee, gli sembrava la sua vita, la profezia della sua esistenza.
C’era uno che mi voleva morto, un certo scrittorucolo Jean-Baptiste Sartre: io leggo poco, già persi troppi anni tra prigioni e fregnacce. Però sto piccolo mangia merda scriveva per farmi appendere,che già mi potevano appendere a ogni minuto. Piccola schifezza assatanata ingozzata di merda, manco mi sei uscita di tra le chiappe e già vuoi sporcarmi tutto. Vieni qui che ti sbrego…
Pausa.
Mi direte: sei così decaduto, Céline, perché non la fai finita!... bene!... quando la farò finita vi dirò: è pensando agli animali, non agli uomini! A “Tete de Chou”, a “Nana”, a “Sarah” la mia gatta che se n’ è andata una sera che non si è mai rivista, ai cavalli della fattoria, agli animali compagni che hanno sofferto mille volte come uomini! Conigli, gufi, merli! Passato tanti inverni con noi! In capo al mondo!... la morte mi sarà dolce… avrò dato il cuore a tutti… sarò sbarazzato delle vostre persone, dei vostri affetti, delle vostre menzogne!... danzeranno più nei miei muri!... non voglio che la morte mi venga dagli uomini, mentono troppo! Non mi darebbero l’infinito! Mi è venuta voglia di morire… ma non per voi! Il mio stile vi urta? E la pellagra e lo scroto che spelano, sfacelano? Voi vi credete mica eterni, per caso?