La Vergogna
La vergogna
Un ritratto di Maria Callas
Versione definitiva gennaio 2010
Azioni mute
OCCHI APERTI, BOCCA CHIUSA, OCCHI SORRIDENTI, BOCCA APERTA,
DI PROFILO, DI FRONTE, CON IL BRONCIO. (2 VL)
MADAME CALLAS è VERO CH’è QUI PER UN MUSICAL.
CANTA EVITA PERON? FA LA MADDALENA IN JESUS CHRIST SUPERSTAR?
EHI MARIA, FACCI UN SORRISO.
QUI, MARIA, GUARDA QUI!
Signora Callas QUANDO TORNERà A CANTARE?
Mi manca l’aria. Ho aperto la finestra, ma l’aria è ferma.
Basta. Basta, togliete quel disco, è una tortura.
La puntina è un chiodo che mi fissa alla croce dell’ascolto. L’avevo detto che non volevo più fare interviste, che quello che dovevo dire l’ho detto in scena, in venti anni che ho cantato in tutto il mondo..
Bruna-azione ripetitiva, Bruna cerca sempre disperatamente di intonare un’aria da Madama Butterfly, ma altrettanto disperatamente fallisce la prova, tutto si risolve in mugugni, biascicamenti.
la ripetizione delle parole è una tortura a cui non si sfugge mai.: quanti mi hanno chiesto come un’ossessione se cantavo Medea perché ero greca, “Medea è il suo personaggio, si vede che è una donna capace di odiare…. Forse la aiuta il fatto che non ha avuto figli, per una madre sarebbe più difficile. Perché poi non ha avuto figli?”
Parole…
Il lavoro è tutto nell’ascolto nello scavo, cesellare minuziosamente ogni vibrazione d’aria. Ritornare alla stessa immagine, alla stessa nota, mille volte, per trovarne ogni minima risonanza. Niente è troppo. Niente. Aprirsi alla nota senza resistenza, senza paura.
Tira la tenda, così non mi vedono…
…hai trovato i movimenti, tutto suona giusto, sei in una parvenza di perfezione che rimane sempre dall’altra parte del filo, ma sono disposta a percorrerlo senza guardare in basso, un passo dopo l’altro con attenzione.
Dall’altra parte del filo, una gabbia.
Alla fine le movenze tanto ricercate all’improvviso ti si attaccano come una maschera rovente, come una camicia di forza.
Apriamo le tende? No, no. Lascia così
Come quei gioielli che ho tanto voluto e che cambiavo continuamente, il mio continuo abito da sera era una trappola splendente.
L’ho sempre saputo.
La vergogna maggiore è quella di non riuscire a spiegare. Tutti hanno sempre pensato che mi volessi dare delle arie, dimostrare che ero diversa dagli altri, quante volte mi hanno detto che sono “superba”, “vuoi sempre avere l’ultima parola”, “vanitosa egoista”.
Eppure tutto sta proprio lì, in una dedizione assoluta alla musica; faticavo a confidare nella parola, mentre i giornalisti storpiavano tutte le mie dichiarazioni e la mia vita da tempo aveva smesso di essere privata.
Quando tornavo a casa la sera dopo il giorno di prove e ristudiavo la parte per l’ennesima volta, gli altri mi guardavano come fossi pazza. “Ma non ti riposi mai?”. “Non vuoi venire a trovare gli amici? Andiamo in quel locale nuovo in centro?”.
No, voglio lavorare ancora un po’.
Nello spazio del lavoro la quiete, un sollievo al peso delle parole scagliate contro di me.
A qualcuno sembrava che io esagerassi per aridità, che usassi il lavoro come scudo, per difendermi dai sentimenti, dal mio corpo esagerato, che non riuscivo a tenere a bada.
Azioni corpo
Da Traviata
Mangiavo, mangiavo sempre di più, appena ce n’era l’occasione e poi scappavo al conservatorio, dove cercavo di scordarmi la mia cara mamma. Souvlàki, mussakà, spanakopita, halva, bàklava, kataìfi, galaktomboureko, curabiedes,
spiavo i vicini che cucinavano, le padelle che friggevano, il formaggio che fondeva, il miele che colava, il latte che si rapprendeva, le mandorle…..,
Il miele colava sul pane e io lo leccavo, lentamente. Faceva caldo, le mosche ronzavano.
poi mi rimettevo subito a studiare i vocalizzi, restavo in quelle pagine. Le note erano il respiro dei miei giorni, non riuscivo mai a distaccarmene e lo sguardo non riusciva a tornare alla realtà.
Mettere dentro, mettere dentro, mettere dentro e ancora. Brama di mangiare, di masticare, di riempirmi la bocca, di inghiottire e inghiottire. Ogni boccone era una sconfitta, ogni masticare una lotta.
Poi la vittoria.
Controllare il do, controllare l’impulso nemico di mangiare,
controllare il fa diesis, controllare il desiderio di morsicare.
controllare il la, controllare lo stimolo di portare qualcosa alla bocca.
Riempire la bocca di sola musica.
Magra pensavo sarei stata più felice, niente più il peso della vergogna di sentirmi dire “titanica” ,“giunonica”, “cicciona”.
La mia bocca lascia passare la mia voce.
Il corpo è il mio strumento.
Anzi, in certi momenti, quando tutto funziona, finalmente il mio corpo in fondo è solo voce, si smaterializza, perde peso. Tutte le volte che sbatto contro la porta della cucina e mia mamma mi rimprovera, tutte le volte che mi provo un vestito dell’anno scorso e non mi va più bene, quando per andare al mare mi metto il costume da bagno che mi strizza tutta, io stringo i denti, ignoro la voce stridula che sbraita: “tutta tuo padre e poi quel nasone greco non migliora certo le cose, cicciona”. Parla, parla, vampira. Tanto lo so che basta aspettare.
(Mosca cieca, la benda sugli occhi non sta ferma), ci vedo, ci vedo.
Uno spaventapasseri nella pianura calcinata di Tessaglia recita il cadavere dei miei desideri d’infanzia.
I primi occhiali erano fondi di bicchiere, spessi, brutti. Quando me li sono messi per la prima volta allo specchio mi sembravo altro da me.
Non io, non io, non io, io no.
La zia si proteggeva il volto col ventaglio.
Le mani di mia sorella, mani diafane, le mie grosse.
Tu, tu sanguinosa infanzia. Sogno di inutile perfezione.
Quando prendo bene una nota allora io sono perfetta, l’intonazione vola e la carne diventa di colpo pasta di nuvole, cipria di vento. La musica blocca allora le ghiandole, che si infiammano quando meno te lo aspetti. Non è un gioco per i medici, i dottori non hanno voce in capitolo, non capiscono proprio niente. La voce incanta il corpo e cancella di colpo i brufoli, quell’acne a puntini bianchi, densa e spessa, che nessuna pomata riesce a mandare via. Il conservatorio è come una stanza della metamorfosi: entro come sono, un’adolescente sovrappeso, determinatissima, ma in fondo un po’ smarrita, con una madre isterica e castrante, e esco un cigno leggerissimo, che si fa fatica a tenere ancorato al suolo. Sono come una ballerina dell’Ottocento, come una Giselle folgorata dal chiaro di luna. Mi sogno così, almeno una volta per settimana, sogno il mio corpo che vola sul palcoscenico. Io sono Giselle, aspetto e trepido per un principe che non verrà, ma lo aspetto lo stesso, quella è la mia ragione di vita, prendo il volo sulle punte, resto sospesa nella grazia perfetta di un arabesque, nella gioia vocalizzo, vocalizzo, vocalizzo, sono sempre più leggera. Quando torno giù sono di nuovo come la mattina quando mi sveglio, sono goffa, pesante, ma lo so che posso sempre cambiare, quando canto, questo è il mio segreto. Un giorno terrò una nota stupenda per sempre. E se per sempre non mi riesce, allora per un tempo lunghissimo, senza mai prendere fiato, tutti la sentiranno e allora diventerò bellissima.
I critici stabiliscono che le mie intonazioni sono giuste, i fans credono di farmi felice portandomi le registrazioni gracchianti di concerti lontani, dove potrebbe essere chiunque a cantare tanto si sente male, esibiscono disperati fotografie in vari costumi di scena perché gliele firmi, mi fermano per strada per un autografo: “lo scriva qui sul gesso”.
(Secchiata d’acqua in faccia)
Quando smetti di cantare lo capisci che ti resta solo uno spazio nella memoria degli altri e che quelli dopo gli applausi vogliono che tu non ci sia più, che tu sparisca, altrimenti lo scontro tra realtà e sogno è troppo forte e lascia l'amaro in bocca, invece dello zucchero del mito. (panno inzuppato d’acqua) Però resti comunque responsabile degli echi che rimangono: le persone vogliono che tu abbia sempre il tuo ruolo. Ti pensano con il costume sempre pronto, sempre disponibile a cantarlo. Io, invece, qualche volta vorrei che dentro, per qualche momento, l’orecchio interno della memoria fosse sintonizzato altrove, su un canale bianco, come nel sonno forzato che mette una pausa alla notte intollerabile. Il mio canto, sono sempre stata avvinta al mio canto, da quando la forza del suono mi ha abbandonato, sento dentro di me quelle arie sempre più forti, su toni sempre più violenti, qualche volta devo tapparmi le orecchie, per non piangere.
Parte la musica della Medea, figli miei
La notte qualche volta risento nella testa quella prima Medea.
Avevo addosso un costume rosso sangue, cullavo i bambini come se fossero miei, Quelli che non ho mai avuto.
L’ultimo abbraccio era quello letale. Li stringevo a me, disperatamente, il più piccolo si metteva a piangere, si chiamava Luigi, e la scena diventava realistica. Troppo. Gli sussurravo: “piano, piano, tanto finisce presto”.
Tutto per me è sempre stato vero solo nella rappresentazione.
Il regista ci aveva voluti me e Giasone come una coppia di belve in un’arena rossa di sangue e verde di veleno, sembrava quasi che quei colori si trasferissero sui nostri volti.
Alla fine ero in lacrime, su di me una luce bianca, come a dire che tutto si era consumato, dopo che avevo cancellato dalla faccia della terra il mio ridicolo marito, quel Giasone che avevo tanto amato, dimenticandomi come sempre di me, cancellandomi nella passione.
A quel punto il pubblico esplodeva “brava”.
Ero felice. Come sempre quando riesco a realizzare il mio scopo nella musica.
Parlare e essere sentita, cosa si può avere di più?
Eppure, proprio quando sapevo di essere sentita mi veniva l’istinto di scappare, come se ogni vittoria avesse in sé il proprio scacco senza rimedio.
Da Traviata
Ne ho avuti troppi di Giasone.
Tutti quelli che mi hanno scoperto, inventato, rivelato, a me stessa o agli altri.
Per tutti questi io ero niente…Argilla, pronta a essere manipolata, per avere una sostanza.
Su di me incombeva dal cielo una mano, che mi doveva rifinire, darmi gli ultimi tocchi, come se fino ad allora fossi stata incompiuta.
E tutti quelli che senza conoscermi mi chiamano ispirati: “Maria”, come se avessimo qualcosa in comune dall’infanzia.
Certi mi fermano per strada e pretendono che io li riconosca, quando non li ho mai visti in vita mia.
Sono il loro giocattolo io?… Un balocco sempre mutevole eppure sempre uguale a se stesso, sempre pronto a una nuova posa.
Ho creduto di avere bisogno di queste cose, di non poterne fare a meno, di non poter vivere da sola.
Pausa
Non essere responsabile della propria immagine è una vergogna. Ho lasciato correre, qualche volta per calcolo, ho lasciato correre qualche volta per noia, ho lasciato correre qualche volta per disperazione.
A me importava solo l’arte, la perfezione, lì, si annida il maggior pericolo, tutto sta in un equilibrio instabile.
Mia madre proprio non mi voleva, eppure aveva sempre bisogno di me, come avversario. Lei è stata il mio primo Giasone.
Lei aveva perso un figlio, Vasily, “biondo e bello” “non sembrava nemmeno greco”, mi ripeteva fino a dieci volte al giorno, indicandomi tra sberleffo e pietà alle sue amiche greche di New York, mentre preparavano i dolci della domenica. Io invece ero “tipica” , “tutta suo padre” e quello lei cercava in ogni modo di dimenticarselo.
Pausa
Era arrivata in America per rifarsi una vita, sull’orlo della follia.
Era furiosa: mi aveva portato in grembo da Atene e tutto questo per nulla.
Niente da fare infatti: non avevo i capelli biondi e gli occhi azzurri, non scuotevo la testa con grazia, ero grossa, violenta. vitalissima e decisamente corvina, col naso imponente come quello di papà.
Mamma rimase talmente delusa alla mia nascita che per qualche giorno non volle nemmeno vedermi.
parte la musica: Tu che le vanità da Don Carlo.
Lavoro con vestito Onassis
La mia casa è piena di ricordi del mio amore traditore, Onassis,
(non riesco a riappacificare quest’ora di una sera in cui vorrei strapparmi il cuore dal petto e gettarlo lontano per non sentire più quanto amore è costretto a trattenere) Vorrei buttarli, ma quelli mi si appiccicano, restano sempre con me, non c’è scampo.
arrivano tutte le barchette di carta
(tragicomica)
GUARDA GUARDA MARIA I RICORDI DEL MIO AMORE ARISTO
novello Ulisse alla conquista del mondo, CHE VOLEVA A TUTTI I COSTI ESSERE MACHO, CERCARE DI IMPORRE UNA IDEA DI VIRILITà ANCHE NELL’ARIA CHE RESPIRAVA.
Quanto avevo pianto, in silenzio, vedendo le immagini del matrimonio con Jackie Kennedy in TV. Avevo cercato di spengere, ma non ci riuscivo, non ci riuscivo proprio.
LE LACRIME SCIOGLIEVANO IL MASCARA, SEGNAVANO RIGHE PROFONDE SUL MIO VOLTO Noi donne solo nella passione non cambiamo mai.
Stelle prendetemi
Il mio corpo non riesce ad essere stanco
Voglio con lui un abbraccio
Da un uomo che mi voglia
Adesso
Così come lo voglio io
Adesso
Nella notte il buio almeno non me lo fa vedere…
Il dovere del giorno
La rabbia mi prende tutti i nervi, uno per uno
Li tira
E non so più se provo dolore
Vorrei bruciare le mie lacrime ma il fazzoletto (è) bagnato non prende fuoco.
Mille momenti in cui avrei voluto scomparire.
Una sera in un night club, sentì annunciare il numero di una spogliarellista: ecco a voi la Callas dello strip-tease.
Aristo ghignava divertito. Io, rossa di vergogna, mi alzai e me ne andai via, sola.
Aristo: (mi chiedeva) “ Chi sei tu? Sei una donna con un fischio in gola che per giunta ora non le funziona più”.
La fiamma si è consumata da tempo. Cenere fredda, ambizioni sbagliate.
Non riesco a disfarmi di lui in nessun modo. Ritaglio dai giornali le sue frasi celebri, …insulse: “E' nei nostri momenti più bui che dobbiamo concentrarci per vedere la luce.” MANDRAX
“Meglio essere infelici sui cuscini di una Rolls Royce che sulle panchette di un tram” MANDRAX
“Se le donne non esistessero tutti i soldi del mondo non avrebbero alcun significato”. Scemenze, lo so, eppure mi fanno piangere.
Forse Addio al passato da Traviata
Me le ripeto sempre, prima di andare a letto, a cercare di ingannare un’altra notte insonne, un altro appuntamento con il pensiero aguzzo, lama che ferisce e scarnifica. Il cuscino è il palcoscenico della mia sconfitta, gioco a carte fino allo sfinimento con i domestici, poi vado verso la stanza, mi convinco a cedere alla notte. Guardo il comodino, poi giro la testa, poi torno all’unico porto sicuro. Mandrax, la soluzione per la quiete. Una pasticca, una sola, che mi concede per qualche ora l’oblio, poco mi importa se poi mi sveglio con la bocca amara, impastata, con gli occhi cerchiati di nero.
La felicità è un fuoco di paglia, si paga a caro prezzo, senza sconti.
Ora ritorna lei
Eppure solo allora io ero nata alla vita.
Con lui avevo ritrovato un poco della giovinezza che non avevo vissuto, rivivendo la Grecia solo intravista nella mia adolescenza solitaria, nei suoi racconti di avventuriero.
a New York da bambina sognavo di andare in Grecia dove ero stata concepita.
Me la immaginavo da me la Grecia…. Montagne, montagne, con sopra chiesette antiche tutte blu e oro e sotto spiaggie bianche, con la luce di un giorno di settembre che eravamo andati in gita a Coney Island; dal Luna Park si vedeva brillare l’acqua, come un’apparizione.
Poi il sogno si avverò, ma non come avevo pensato.
Andai in Grecia sì, ma solo con mia madre Litsa, in fuga da mio padre.
I colori della visione erano giusti, ma mia madre li rese subito cupi, irrigidendo case e palazzi in una sequenza di inchini e riverenze, nei salotti delle sue amiche più ricche di Atene.
Le pillole di mezzanotte mi fanno vedere chiaro, mi immergo nell’acqua fredda e intravedo una grotta blu.
Nuoto e arrivo fin là, nella grotta trovo un uomo, so che è Orfeo, tiene una chitarra. Il suo canto incanta gli animali e gli uomini, resto a fissarlo a lungo, osservo come folle il tocco leggero delle dita sulle corde, la canzone che canta è antichissima.
Ne conosco le parole, che pure sono irriconoscibili, lontane da me, eppure sempre sulla punta della lingua.
Il pozzo dell’infanzia è una capriola senza limiti nel vuoto, un precipitato di emozioni indicibili, un groppo in gola che qualche volta diviene musica.
Poi capisco all’improvviso. Orfeo è mio padre, che canta nella farmacia di famiglia a New York , si chiamava Georgeos, era il mio principe azzurro, il mio eroe in tutti i momenti tristi, ma mia mamma lo accusava di essere un irresponsabile, di tradirla con ogni donna e si vergognava di aver sposato un farmacista. Lei figlia del generale Dimitriadis, si era abbassata, abbagliata dall’amore, a sposare un medicastro, un fallito dai baffi troppo seducenti e dal cuore troppo tenero.
Mamma mi diceva che ero grassa come un agnello, che in confronto a mia sorella Yakintj non mi sapevo comportare e sembravo una vacca da latte.
Sbattevo la porta in furia, attraversavo la strada e andavo alla farmacia di papà, che tutti chiamavano Tata Geo; lì lavorava Rosalinda.
Lei mi aveva insegnato una canzone (canticchia)
Puro Teatro
Igual que en un escenario
Finges tu dolor barato
Tu drama no es necesario
Ya conozco ese teatro
Mintiendo que bien te queda el papel
Despues de todo parece
Que es tu forma de ser
Yo confiaba ciegamente
En la fiebre de tus besos
Mentiste serenamente
Y el telon cayo por eso
Teatro...
lo tuyo es puro teatro
falsedad bien ensayada
estudiado simulacro
Fue tu mejor actuacion
Destrozar mi corazon
y hoy que me lloras de veras
Recuerdo tu simulacro
Perdona que no te crea
me parece que es teatro
y acuerdate que segun tu punta de vista yo soy la mala!
Ay!!
Teatro...
lo tuyo es puro teatro
falsedad bien ensayada
estudiado simulacro
Fue tu mejor actuacion
Destrozar mi corazon
y hoy que me lloras de veras
Recuerdo tu simulacro
Perdona que no te crea
me parece que es teatro
Perdona que no te crea
Lo tuyo es puro...
Teatrooooo.
(Bruna la prende di peso dalla sedia il segno della croce e poi urla)
“Maria, stai lontana da quella puttana, solo un imbecille, fallito come tuo padre, può farsi rammollire da una donnaccia del genere” (piangevo….)
Lei odiava anche i miei canarini, me li portai in Grecia da New York ; li ascoltavo, li imitavo, erano il mio primo pubblico. Stefano, Davide ed Elmina che non cantava perciò diventò la mia confidente. Era sensibile e sveniva sempre quando facevo gli acuti.
Ritrovo il mio sguardo di ragazza ad Atene, vicino al Partenone cantando un’aria di Cavalleria rusticana provai per la prima volta quella sensazione che mi prende alla gola, che trasforma l’emozione in un sapore denso.
Ho sacrificato tutto alla scena, all’arte, eppure niente mi faceva più paura di quel momento in cui la luce si alzava e toccava a me intonare le note.
Quindici anni sono pochi per un debutto, non sapevo nemmeno quello che cantavo,
Che ne sapevo io del mal d’amore, se non per quello che mi raccontavano le opere liriche.
La gelosia si, la conoscevo, di riflesso sulla faccia torva di mia madre: “ sei così brutta e grassa, almeno canta, fai carriera”, era come se, con tutti i suoi ordini, mi chiedesse di consolarla di non essere stata il figlio di ricambio, che aveva sperato in me.
Quando cantavo le accuse velenose di mia madre scomparivano.
Cantavo sempre, studiavo sempre. Stavo al conservatorio dalla mattina alla sera, spiavo le mosse degli altri cantanti, tutti, anche il peggiore, possono insegnare qualcosa.
Elvira
Parfet, docile, intelligent, travailleuse, cette quelque chose de formidabile, je ne pas besoine de repeter une frase deux fois, elle disèe qui capito. Les jour suivant tout ces magnifique. Et tout comme ca. Elle etè très musical et musicien parce que elle connesait très bien la musique e jouait le piano très bien. Al Conservatorio
Elle ètait la premier et a partir la dernier
Ca c’est surprenant, parce que.comme elle puovat rester là cinque houre?
C’est pour ca va que elle avait cette…idèe du charter de faire les notes elevèe.
Elle me disait: exceque je porra faire le picchettati?
Moi, je dit : si tu continerais comme ca qui tu pourra faire tout, tout
Perfetta, docile, intelligente, lavoratrice era qualcosa di formidabile, era molto musicale e musicista perché conosceva molto bene la musica e suonava il piano molto bene.
Era la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene e Ascoltava tutti gli allievi, come faceva a resistere tutte quelle ore… le colorature, i tenori…tutti .si era messa in testa di cantare, di fare le note alte. – “Potrò fare i picchettati?” -- Si se tu continui così, potrai fare tutto, tutto. Ma tieni i gesti al minimo, non esagerare, non pensare di fare il cinema che l’opera è opera e va presa per quello che è.
Non la finii di cantare quella volta la Norma all’Opera di Roma di fronte al presidente Gronchi, dovetti lasciare. Stavo male, avevo la gola gonfia, era meglio se dicevo subito che non ero in grado. Invece, come sempre, avevo eseguito il mio compito. Cantai con fatica il primo atto, poi nelle quinte dopo il finale parlai, al direttore del teatro.
Il presidente batteva il piede, impaziente, nel suo palco.
Il mio corpo, chiedeva il suo prezzo con una influenza tremenda e la voce che se ne andava….
Misuravo quelle tavole che conoscevo bene: otto da sinistra a destra, cinque da destra a sinistra, guardavo l’orologio della sarta che mi inseguiva per appuntarmi il velo al costume. E infine la tenda si apriva e un annunciatore diceva che non avrei cantato. Il pubblico era scandalizzato. (silenzio)
Quando in scena ti va via la voce è come provare in pubblico la propria morte…….
La vergogna è un ostacolo, una paralisi, un abisso della parola e del pensiero, è la radice di ogni sfida: qualche volta mi sento come un toro nell’arena. Stare sotto il cerchio di luce è trappola e sprone a un tempo.
Mercè dilette amiche da I Vespri Siciliani
Quando finalmente dimagrii anche il mio corpo venne esibito sull’altare della pubblicità.
Un parente di mio marito mi chiedeva disperatamente di fare pubblicità a una pastasciutta e io mi misi a ridere, mi sembrava una battuta comica.
Però un giorno lessi su una rivista “ nella mia qualità di medico curante del soprano Maria Meneghini Callas, certifico che i meravigliosi risultati ottenuti nella cura di dimagramento praticata dalla signora Callas sono in massima parte dovuti all’uso della pasta fisiologica prodotta nei mulini Pantanella di Roma“.
Il mio corpo che finalmente somigliava ai miei sogni e ai miei desideri di ragazza, era stuprato sull’altare della pubblicità, con una bugia.
Pio XII, che era lo zio del presidente della fabbrica, mi chiamò in udienza, mi chiese di lasciar perdere il processo. Nemmeno per idea!
Con la mia sarta, Biki, avevamo studiato un’immagine, sobria, ma elegante.
Avevo visto al cinema Sabrina e avevo deciso che volevo essere come Audrey Hepburn, alla mia maniera
I rotocalchi sparlavano, facevano a gara a fotografarmi, a riprendermi in ogni posa.
Prendevano in esame la mia voce, la definivano troppo forte o troppo poco verdiana, esaminavano i suoi colori e poi le note alte, l’espressività del portamento o del gesto.
Ma nessuno era disposto ad ascoltare col cuore.
A poco a poco si deve abituare il pubblico al nuovo, al nuovo mancano le parole come ad un bambino appena nato.
(I critici): ha dato prova di un solido stile classico----voce misteriosa,---- analizzata, fatta a pezzi,----colori irridescenti, diversa da tutte.
Cercano di definirmi, classificarmi: soprano lirico o drammatico? Leggero o spinto?
Ricchezza di volume, o istinto, o scuola?
Un miscuglio di parole senza definizione, il nuovo fa paura.
Intanto la Menegona è diventata la Meneghini Callas. Una donna, un’artista a questo punto doveva fare i conti con uomini che fanno e disfano artisti, mercanteggiano voci e musica.
Come reagire a quel mondo di affari che gioca sempre le sue carte più forti e con quella parte del pubblico che in genere va a teatro senza orecchie?
Per me contava solo la musica, li guardavo da miope e quindi andavo avanti a naso. Preparai il mio piano d’attacco. Prima l’arte poi la bellezza e l’eleganza.
Allora diventa di moda parlare di me, difendermi o denigrarmi, osannarmi o accusarmi per come canto, per la mia voce o per le sue origini, per il mio peso o per il mio matrimonio.
Il mio nome non era più americano, greco, italiano…ne grasso, ne magro era soltanto e prima di tutto il nome che apparteneva alla musica.
Il mio lavoro ha avuto un solo significato: dare il meglio di me. Curare i dettagli, provare e riprovare sentirmi un tutt’uno con il maestro, con l’orchestra, con il coro.
Prima di cantare aspetto il mio tempo seduta dietro il palcoscenico, con precisi gesti silenziosi e lenti riconquisto la mia dimensione più profonda e sciolgo tutti i pensieri – preparo la maschera.
Tutte le incognite a cui stai per andare incontro esistono in potenza in quell’attimo.
Aumentò la fama, ma anche la mia vulnerabilità, c’è una donna e una diva…..la donna cerca se stessa, la diva al vertice di una gloria che non le bastava più.
Direttori di teatri, recite interrotte, cause e processi, festeggiamenti mondani, salute incerta, inquietudine.
Mi difendevo tirando fuori gli artigli di un animale ferito, ero consapevole della mia crisi e non solo vocale.
Io volevo solo sentirmi libera, decidere per me stessa perché fin dal principio questa libertà mi era stata negata.
Non bastano più gli applausi, ne le ovazioni, ne i fiori, a farmi sentire forte.
Sapporo. 11 novembre 1974. Un dolore al petto. Una fitta mista a lacrime.
Avevo cantato prima a Seoul, poi a Tokyo, Osaka e Hiroshima; a Nagasaki avevo piantato un albero nel giardino di Butterfly.
Canto male, stecco.
Il pubblico mi applaude comunque, applaude disperatamente come se sapesse che è l’ultima volta che sarò in scena.
Mi faccio coraggio, il mio ultimo bis è un’aria da Carmen.
La mia voce si cancella non appena è emessa, resta una traccia vaga, lontana, la silhouette di un’ombra. I giapponesi balzano in piedi, si lanciano in una standing ovation di cui non conoscono bene le regole, Sono venuti a applaudire un fantasma, a compiere un rito funebre per un’assenza.
Qualche giorno dopo su “Le Figaro” la sentenza definitiva: “La divina canta come se avesse un trapano in bocca”.
Lo sapevo da me, mi aveva preso alla gola fin dall’inizio la voglia di smettere.
Ogni nota un ostacolo insormontabile, ogni brano, cantato mille volte , trasformato in un campo di battaglia, attimi di puro dolore.
Do: una fitta nel fianco.
Re: mi manca il respiro.
Mi: buio agli occhi.
Fa: perdita di concentrazione.
Sol: Dolore, in fondo alla gola.
La: Vuoto di memoria.
Si: Panico.
Do: Abdicazione.
Sapevo di avere una voce, era una presenza certa dentro di me, il resto me lo sono dovuto conquistare, palmo a palmo, fino all’ultimo respiro.
Entrare in scena è difficile, uscire certe volte sembra impossibile.
Gli alberghi all’inizio mi tranquillizzano, poi mi viene nostalgia di casa.
I dettagli, che me ne occupi o meno, mi inseguono.
Ridere, ridere, di niente. Magari. Almeno non pensare, annullarsi in qualcosa.
Le perle regolari sono bellissime, anche se portano lacrime.
I cappelli solo piccolissimi, minimi, che non mi coprano gli occhi.
I guanti preferibilmente dello stesso colore degli occhi.
I fiori mi piacciono, ma in camerino mi soffocano.
Alle camelie comunque preferisco le margherite.
Più semplici, quiete.
Una canzone di Rembetiko, una canzone a dispetto, di amore disperato, che cantava a squarciagola la cameriera di una osteria.
M’ama
Non m’ama
Non m’ama
Non m’ama più
Sola
Perduta
Abbandonata
Schiava
Di un
Popoloso
Deserto.
“Perché devo fare Medea al cinema in un film di Pier Paolo Pasolini?”.
“Perché devo fare Medea al cinema con la sua regia?
Perché sono greca,
Perché l’ho cantata per tanti anni in scena,
Per non pensare più a me,
Perché sono stata scaricata dal grande amore della mia vita per una più giovane di me,
Perché le hanno detto che prendo troppi sonniferi e passo le notti ad ascoltare i miei vecchi dischi?
Perché le faccio pietà?
Perché il produttore ha detto che sono una sicurezza al botteghino?”.
Perché?
Fine
RICORDI DI NOTTE
In corsa e in lentezza, a seconda dei ricordi, taluni svagati, altri con l’urgenza di togliersi un peso, affiorano nelle notti insonni stonate dal Mandrax.
Attesa snervante di un’identità qualunque, anche nemica.
Un giorno il mio naso diventerà piccolo, piccolissimo, forse allora mi mancherà.
Ieri ho buttato via un paio di occhiali da sole di Aristo, che erano rimasti dentro un cassetto per anni. Quando li ho trovati, cercando una sciroppo per la tosse, ho avuto un conato di vomito.
Mia madre mi appare negli incubi, come una bambina di sei anni, mi ripete sempre la stessa domanda, stridula, gracchiante: sarai mai felice da grande? Sarai mai felice?
Come si chiama il desiderio improvviso di quello che non si ha? Io lo sapevo, da bambina, quando scendeva il tramonto d’autunno a New York.
Mio papà che preparava una bottiglia di chinino, per un signore alto e pallido che tossiva forte dall’altra parte del bancone e quello poi lo ringraziava in greco.
Cosa vuoi, io non sono mai riuscita a tenere i mobili nella stessa stanza per più di un mese. Appena mi abituo, mi viene l’affanno, devo cambiare.
Al mare sono sempre felice, anche quando fa brutto.
Il destino felice di una zanzara, prigioniera dell’ambra, costretta alla perfezione senza sforzo dei secoli.
Entravo in teatro un’ora prima per rivedere il mio percorso, imparavo tutto a memoria, anche i gesti degli altri.
Come se bastasse cantarci sopra per vedere bene.
Nebbia, confusi tratti, volti che appaiono e scompaiono.
Meglio così, sapere tutto è un rischio.