La Madre

Lettere di una novizia
Adattamento dal romanzo di Guido Piovene per Maria Grazia Mandruzzato

musica di Gian Francesco Malipiero

LA MADRE

Potevamo essere amiche.
Non ho mai preteso di essere la perfezione, ma so di avere più ragione che torto.
Rita ha sempre mentito su di me, sempre. Margherita mentiva come respirava, sempre e comunque. (Pausa)
Io ho delle colpe, lo ammetto, forse… quando Rita era piccola, ero giovanissima, sentivo poco l’istinto materno, ma ricordo di avere avuto per lei, anche allora, slanci di affetto anche troppo caldi e esclusivi. Se Rita avesse avuto abbastanza buon cuore da rispondere ad essi con qualche generosità, la nostra vita sarebbe stata diversa. Si ostinò invece a respingerli con durezza, freddezza e severità di giudizio.
Allora attribuivo la sua ostilità all’influenza dei nonni, ma no, era lei: il problema era la sua cattiveria. Rita è sempre stata cattiva, da quando era bambina, se mi guardo indietro non vedo che menzogne in quella sua vita fatta di bugie, da quando ha imparato a parlare.
Falsa una bambina? Sì una bambina: falsa, morbosa e perversa.
(Pausa, abbassando la voce)

Molti mi hanno ritenuta senza cuore, perché al processo sembravo una statua.
Ho solo detto la verità, per quanto spiacevole e in primo luogo terribile anche per me. Mia figlia si mostrò sempre avversa e spietata, con me e con tutti, tranne che con sua nonna, forse. E quando la sua cattiveria si spinse fino all’assassinio, mi adattai a tacere a mio rischio, a patto che restasse chiusa in convento per sempre. (pausa)

Non ho più amici, non mi importa. Il silenzio scandisce le mie giornate, non voglio intorno nessuno nessun testimone del mio scacco.
Rita mi ha sempre odiato forse perché ero bella, le facevo ombra,
Alla fine ce l’ha fatta a distruggermi la vita.

ho i capelli bianchi, tanto a chi importa, li vedo solo io e lei non è certo qui a godere del suo trionfo.
Passo di fronte agli specchi,e ho paura. Il tempo tra soffi di gelo è arrivato con il suo fratello il disinganno.
Eppure io avevo sperato (davvero) di potere alla fine parlare da pari a pari con Rita.
è vero, forse ho cercato più una sorella che una figlia. E’ vero. Colpa mia. (pausa)

Parlare? Parlare. (Parlare). Davvero non me ne ha mai, mai, mai dato il modo.
Io la cercavo e lei mi sfuggiva, la credevo vicina e lei era lontanissima, assorta nei suoi calcoli tortuosi. (Pausa, assorta, per un attimo, con voce normale)
E’ che io sua nonna non l’ho mai potuta sopportare (la soffocava di affetto),
e invece avrei dovuto star più attenta da subito a quello che mi diceva, darle retta, visto che passava con Rita molto pìù tempo di me.
Io avrei voluto dividerle per gelosia? Gelosa, io? Ma se invece di mandarla a Milano ho lasciato che restasse nel collegio del paese, per non separarla dalla nonna che ne sarebbe morta di crepacuore . Gelosa io? Ho accettato contro me stessa di farla vivere in quel buco tra monache e educande, che vivono divise tra pietà, avarizia e lavoro agreste: polli, conigli, maiali. E lì è cresciuta sana, con i pomelli arrossati dall’ignoranza.
Quando la nonna mi disse che Rita diceva bugie sempre più grosse, pensai solo a una soluzione rapida, non a trovare la causa, devo essere onesta: mandarla in collegio fu un sollievo. Stavo male.
Quella bambina era arrivata a inventare di essere stata picchiata più volte dalla serva, perché aveva bisogno di mettersi in mostra; era tutto falso, chiaro. La nonna era ai suoi piedi, e lei se la rigirava come voleva, ma quella volta fu troppo anche per la vecchia nonna. Le prese il volto tra le mani e come sempre, non ci lesse proprio niente, perché Rita fin dalla sua infanzia teneva tutto nascosto, anche a se stessa. Perfino lei esplose: “bugiarda, so da parecchio che sei bugiarda e ipocrita. Io ti tratterei con la frusta” e Rita ostinata a mantenere la sua posizione, come se ne andasse della sua stessa vita (Pausa)

Avrei dovuto affrontare il problema allora.
In una lettera dal carcere, mi scriveva: “ quella volta ho peccato per gratitudine di quelle amorose carezze che consolavano la mia infanzia così abbandonata”
Lei la piccola orfanella abbandonata e io nella stanza accanto a pettinarmi e a profumarmi, ignorando le sue disperate grida di aiuto?
Bugiarda e ipocrita. Le è sempre piaciuto dipingermi come un mostro di indifferenza.

Io non riuscivo a capire come parlarle, non capivo come prenderla, non ho mai trovato le parole giuste, forse la mia colpa maggiore è quella di non aver cercato abbastanza, ma a quel tempo ero così giovane, avevo da poco perduto mio marito, era un momento difficile, non avevo un sostegno e di parole non ne trovavo nemmeno per me. (Pausa)

Rita era un giudice senza pietà; mi ha sempre giudicato, in ogni momento della sua esistenza. Quanto le piaceva mettersi in pose da santa: lei sul suo altare, immacolata e sotto, ai suoi piedi, tutto il mondo, preda di appetiti bassi e volgari.
L’avevo mandata in collegio perché volevo vivere la mia vita, lo ammetto, non ho mai saputo trattare con i bambini, preferivo se ne occupasse qualcuno che avesse più esperienza, che sapesse come fare. Mi sembrava di fare la cosa migliore per lei.
Quando tornò dal collegio, (dopo la morte dei nonni,) era diventata grande,
le andai incontro con sincerità, con amore, da donna a donna, da amica a amica.
Mi sembrava che anche per lei fosse lo stesso, la vedevo felice. Così dopo le vacanze, quando sarebbe dovuta tornare dalle monache, decisi di farla rimanere con me.
Io sono sicura di avere agito con spontaneità, anche più tardi: attraversavo un momento pericoloso, pieno di ansie e di squilibri. Vidi in Rita un’amica, l’associai ai miei turbamenti, in lei cercai un aiuto.
Che illusa. Avevo persino sperato nel paesaggio dei colli: Rita aveva sempre dimostrato di amarlo fin dalla sua infanzia, speravo contribuisse a rendere salda la nostra amicizia.
La natura unisce sempre diceva un’anziana signora all’albergo sul lago, lei aveva chiesto come me una stanza dalla parte dell’acqua. Perché la sua grande passione era la bella natura. Io non so amare nient’altro. Non la natura, quella a volte la detesto, ma la bella natura. Proprio di quella ne ho sempre avuto bisogno(Pausa)

Rita non amava davvero la natura, la usava come un’arma contro di me.
Tra noi due un diverso vocabolario! No anzi, le stesse parole, ma che in bocca a lei volevano dire davvero tutt’altro. Rita era il mio specchio deformante, tutto quello che dicevo prendeva una tinta sospetta, equivoca.
Alla fine, quando tra noi non era rimasto che l’odio, arrivò a dire che il mio amore per i colli le faceva ribrezzo, perché li amavo sensualmente e vi associavo i ricordi recenti dei miei peccati amorosi. Non le è mai passato per la mente che quei colli potessero essere legati al mio matrimonio, al risvegliarsi di me al mondo dei sensi, volle sempre vedere tutto come sporco.
Lei odiava ogni forma di felicità, anche la sua propria. Nascondeva a se stessa di essere allegra, si celava di essere innamorata per paura di scendere dal suo piedistallo, ogni forma di felicità le era sospetta in modo intollerabile.
Mia figlia aveva il gusto per il laido. Ogni azione, sia pur minima, doveva sempre avere un doppio fondo, una possibile malvagia intenzione.
La passione ripugnava troppo a quell’anima, forse le avrei perdonato se nel farmi del male l’avessi trovata almeno appassionata. Conosco troppo bene la passione,ne avrei perdonato tutti gli eccessi, ma in lei non c’è mai stata, neanche in quell’amore che volle contrapporre al mio e che finì in tragedia.
“In verità, non ogni moto, pur se ci appare degno di approvazione, va subito favorito; ne ogni moto che ci ripugna va respinto fin dal principio. Occorre talvolta che tu usi il freno, anche nell'intraprendere e nel desiderare cose buone. Occorre che tu faccia violenza a te stesso, andando virilmente contro l'impulso dei sensi. Occorre che tu non faccia caso a ciò che la carne desidera o non desidera, preoccupandoti piuttosto che essa, pur contro voglia, sia sottomessa allo spirito. Occorre che la carne sia imbrigliata e costretta a stare soggetta, fino a che non sia pronta a tutto; fino a che non sappia accontentarsi, lieta di poche e semplici cose, senza esitare di fronte ad alcuna difficoltà”. Lo ripeteva sempre quella santarellina, quella madonnina infilzata, voleva sempre che io fossi all’altezza di tutti i santini nel suo breviario e di quella sua Santa Giustina che si portava anche al gabinetto. Conosceva a memoria tutte le storie della santa che le avevano insegnato le suore e baciava baciava baciava quell’immagine, sotto cui c’era scritto vergine e martire. Quanto teatro. Lo scrissi anche al prete che lei cercava di convincere per fuggire dal convento. Attento: Rita è una bugiarda nata, sarebbe un miracolo se per una volta dicesse la verità; deve rimanere in convento se no la denuncio, la mando in galera, non posso essere io la sola a perdere tutto. (Pausa)

Quando a sedici anni tornò dal collegio, vidi, vidi? volli vedere in mia figlia una donna, mi sembrò che fosse possibile trovare in lei un’amica, una vera amica. (Pausa)
Che sbaglio. La santarellina era sempre pronta a consolare gli afflitti, come le avevano insegnato le monache (in collegio), ma tutto quello che faceva era recita, imitazione. Si approfittò di me, mi fece credere che lo scopo della sua vita fossero i miei problemi, c’era, c’era un amore segreto che mi legava, mi teneva stretta, dopo tanto tempo avevo cominciato di nuovo a sperare. Sono stata stupida, certo, mi sono lasciata raggirare da lei come una giovinetta, ma in quel tempo avevo così bisogno di sentirmi consolare, di avere delle certezze, di sentirmi dire che potevo di nuovo sperare.
Allora leggevo I fratelli Karamazov, lei mi sembrava Alioscia, una di quelle anime candide che nella loro elevatezza, e per grazia speciale di Dio, conoscono la vita di cui pure non hanno esperienza. Una sognatrice solitaria, intenta a leggere in un angolo. Questa era la figlia che io sognavo.
Un giorno glielo dissi, che errore. Rita è sempre stata un camaleonte: per compiacermi, ha recitato anche quel ruolo; ha letto e riletto Dostoevskij per trovare i toni giusti, ma di me non le importava niente. Mi ha fatto cadere in un mondo dove l’unica realtà era la menzogna. Io ho ceduto per viltà, mai nella mia vita sono stata così vile. Tutte le parole che mi diceva erano oro colato, mi lisciava, mi spingeva a essere sempre più preda della mia passione. Come ho fatto a credere che avesse la scienza senza malizia dei santi, come ho fatto a crederlo? Credevo allora, povera illusa, che conoscere meglio i mali del cuore umano contribuisse ad aumentare in lei quella bontà, quell’amore, che le avevo attribuito. Le avevo aperto la mia biblioteca senza timore, ma ognuno dei libri che leggeva era un altro chiodo per la mia croce. Rita passava le giornate e le notti a leggere romanzi da adulti e quando cercavo di distoglierla, di occuparla diversamente, mi rispondeva che non avrebbe potuto aiutarmi, se le mancava la necessaria istruzione. Dalle letture usciva tutta esaltata, e si sfogava scrivendo un certo diario, che non volle leggermi mai. Ne trovai alcune pagine molto più tardi, parlava di me, il tono era spietato. (Pausa)

Rita così mi condusse ad abbandonarmi con lei e a rivelarle alcuni gelosi segreti.
Ne approfittò per illudermi che io fossi amata più di quanto non ero in realtà. Ma appena scoprì nel mio volto e nei miei sfoghi i primi segni di dolore, subito mutò contegno. Ogni giorno di più mi spingeva a una specie di pazzia. Da amica, divenne ostile, da ascoltatrice indulgente, giudice crudele.
Con me non ebbe un attimo di tolleranza da quando iniziò a vedermi soffrire. Divenne frettolosa e sgarbata, cercò di continuare a illudermi come prima, ma le riusciva peggio; la vista di una creatura che soffriva la disgustava (profondamente)troppo, nel suo mondo tutti dovevano essere lieti o almeno fingere di esserlo.
Mi sedeva davanti, tetra, silenziosa, con un’espressione spossata e talvolta, quando io le parlavo, con un broncio ostinato di disgusto. Non aveva voglia di nulla, ma non voleva mai allontanarsi da me. Perché? Forse per godersi lo spettacolo fino all’ultima scena. Le mie sofferenze, i segni dell’insonnia sul mio viso, erano tutte ragioni di disprezzo verso di me, e per lei tanto fastidiosi e sgraditi che quand’era con me non sapeva più come muoversi e nemmeno come parlare. Interrompeva i suoi eterni silenzi solo per scagliarmi addosso qualche frase, in cui mi ripeteva con irritazione e disprezzo che non avevo nessun motivo di essere addolorata, anzi avrei dovuto mostrarmi felice, perché quell’uomo mi amava sempre più.
Quell’uomo non mi amava affatto. Quanto fanno piacere le bugie quando si è deboli.

A forza di menzogne lei mi succhiava la mia bellezza e io diventavo sempre più fragile, sempre più brutta.
Finché il mio amore era curioso, divertente, Rita diceva di amare la solitudine,la natura, il paesaggio che fingeva ci unisse, i libri. Ma non era vero: coltivò a mia insaputa molte amicizie, che io non le avrei certo proibito, ma a lei piaceva far tutto di nascosto. Forse le servivano per divulgare le sue maligne fantasie sul mio conto, presentandosi come vittima prigioniera di una vita equivoca e malsana. Ancora oggi non so davvero tutto il male che mi ha fatto.
Tutto quello che le dicevo me lo ritorceva contro: Rita era il mio specchio sporco, ogni mia aspirazione mi ritornava indietro distorta, ogni mio gesto, ogni mio momento d’amore diventava una smorfia grottesca.
Capii troppo tardi quanto mi sbagliavo: nel diario imitava come una scimmia gli scrittori che io leggevo, mi descriveva come un mostro, io, un mostro? E lei, allora, che mi dava corda e mi spingeva ad a Milano dal mio grande amore, per farsi i suoi sporchi, laidi amorazzi con il figlio di quella contessa Verdi, così volgare? Non ho mai frequentato quella gente, erano una macchia in questo paesaggio che ho tanto amato. (Pausa)

Il ragazzo Verdi mi era sempre parso insignificante, aveva modi tra l’annoiato e lo sprezzante, mangiava poco, non aveva amicizie, non bevevo, non fumava, si atteggiava a uomo perfetto. Chi avrebbe potuto pensare che mia figlia lo trovasse attraente? E invece… Me li vedo davanti: come animali, bestie cieche, che si accoppiavano per i campi, forse quel giorno lui l’avrà contraddetta, forse non voleva più essere suo schiavo, forse voleva sposarla, chiedermi la sua mano, oppure invece sarà stato respinto dalla sua stessa idea Ma no, a lei piacevano gli accoppiamenti sordidi, ritrovare subito la compostezza dopo essersi rotolata vicino ai porcili, nascondere in fretta e furia quell’odore persistente sotto l’incenso delle devozioni. (Pausa)
Poveretto, anche lui vittima degli inganni di Rita. (Pausa)

Quel giorno l’ho trovata che piangeva, disperata,sul divano, con accanto la domestica che cercava di consolarla, lo aveva ucciso.
Prima o poi il velo cade, le dissi chiaro: o il convento o la prigione, non c’è altra possibilità. Non mi rispose nemmeno: si era già messa a recitare L’imitazione di Cristo.

Poi il convento, la fuga, il processo, la prigione, i titoli sui giornali, la sua malattia,la sua morte,……. il suo funerale,

sono diventata vecchia .
Non mi curo più di niente, né della mia reputazione, né di me.
Sono diventata vecchia.

Tento di allontanare i dettagli e quelli mi ritornano alla memoria, ostinati, mi si attaccano senza pietà, mi tolgono il respiro.
L’ultimo nostro incontro, la sua ultima lettera dal carcere,

“Forse ti hanno informata che il tribunale ha respinto il ricorso e ha mantenuta intera la condanna. Sono già passati otto giorni da quando ho avuto questa cattiva notizia; solo oggi mi risolvo a scriverti come già avevo pensato da un pezzo. Ho voluto che questa mia lettera maturasse quasi inconsciamente e che si calmasse del tutto dentro di me il moto di ribellione contro una condanna così inesorabile e dura. Ora sono tranquilla e indifferente al pensiero che sarò costretta a passare in questa prigione qualche anno. Un altro è il pensiero che mi tortura, che tu sia contenta di sapermi lontana da te, forse per sempre. Io ricordo senza odio chi mi ha fatto del male. Ti supplico, non irritarti se ti scrivo queste parole che non ti vogliono umiliare. Mi sono venute dall’anima che vuole solo cancellare ogni inimicizia tra noi. Ti chiedo la pace perché cedo a un bisogno, ma non a un bisogno di oggi. Io so di averti sempre amata. Hai creduto che ti fosse rivale, ma l’unico tuo nemico era il tempo che non sapevi addomesticare. Tu eri bella, la tua bellezza veniva da altrove ma non comunicava con il mio mondo, e io potevo solo ammirarla da lontano. In fondo alla mia anima ho sempre avuto un paesaggio simile a questo, nel quale, fuori dagli egoismi e dagli odi, amavo una tua figura, già divenuta immaginazione e ricordo. E anche quando ero costretta a lottare con te. Da quel fondo di quiete si distaccavano ricordi sereni, nei quali ti accarezzavo, e che riempivano la mia avversione apparente di rimorso e dubbio. Accade così coi morti. (Pausa, la voce si fa affannosa) Quando scappai dal convento penetrai di nascosto nella mia vecchia casa, ma lì la bellezza dei ricordi era contaminata dall’ansia della fuga, dalla paura di essere vista. Adesso rinasce intera e rivedo la nebbia bianca nella valletta, il ciliegio che appena cominciava a mettere ombra. Ed anche tu dormivi nella tua stanza, perché non ci siamo capite? Te lo ripeto: ti ho sempre amata, tanto. Ricordo un fatto che tu non puoi sapere: un pomeriggio di inverno, aveva appena finito di nevicare. Scesi in giardino, guardando con meraviglia le mie tracce apparire nella neve pulita. Non sentivo più il freddo tanta era l’ intimità della neve con me, finché non toccai la ringhiera, bruciava. Allora tornai in casa, arrivai fino alla porta della tua camera da letto. La porta era aperta e tu ti guardavi allo specchio, indossando un abito rosa di cui aggiustavi le pieghe e le ampie maniche simili ad ali flosce. Forse non eri contenta, perché ti voltavi a metà. O sollevavi un braccio con l’ala pendente, poi la abbandonavi pentita e ti guardavi scoraggiata. A me il tuo parve il un graziosissimo ballo, sotto la luce del tuo volto gentile raccolto in quel rosa di fiore. Perché abbiamo voluto farci del male a vicenda, se c’era tra noi un seguito d’atti d’amore segreti? Spero di essere ancora in tempo per amarti, quando credo che ciò non sia possibile, scoppio in lacrime. Puoi non crederci: la mia anima non è aspra, ma dolce, amabile e non odiosa, fiorita e non deserta; tanto che forse, se l’avessi capita, l’avresti amata anche tu.

Potevamo essere amiche.
Io ti volevo bene, davvero
Non mi resta che il dolore di avere fallito, il dolore di non averti rivelato il mio pensiero.
Perdonarmi?
Eppure l’amore tra madre e figlia è la cosa più naturale, poteva essere così facile, come quando il domestico metteva a posto i fiori nel vaso.
Rita amava il caos, la distruzione, io, invece, so amare solo quello che è naturale, nei libri, nel paesaggio, nelle anime.
Potevamo essere amiche.