Gold

Luca Scarlini
Gold
Dedicato a Friedrich Dürrenmatt

Stesura definitiva: 1 settembre 2003

Sullo sfondo l’immagine de L’ultima assemblea alla Banca Federale di Friedrich Dürrenmatt o, qualora fosse possibile, il quadro stesso. L’attore–personaggio parlotta tra sé, è vestito di bianco; accanto a lui alcuni oggetti dorati (un vaso o qualsiasi altro accessorio con una serie di monete sullo sfondo. Vanno benissimo anche quelle di cioccolata, anzi più sono improbabili e meglio è, come nel testo dürrenmattiano, vorrei che il personaggio-attore avesse una biro dorata con cui scrivere indefesso su fogli grandi simili a lavagna, in cui di tanto in tanto appunterà le sue teorie; mentre inizia la sua conferenza-conversazione, si sente un po’ intelleggibile e un po’ quasi completamente inudibil, per frammenti, e Oro di Mango nell’interpretazione di Loredana Bertè, come se venisse da una radio con dei gravi problemi al transistor).

Me lo ricordo bene quell’anno, fu tutta una complicazione. Fino a poco tempo prima tutto andava a gonfie vele, mi sembrava di essere al culmine della felicità. Erano decenni che i dividendi crescevano a vista d’occhio. Ma poi era venuta la recessione, la crisi; io a quella riunione in banca c’ero, sono uscito solo cinque minuti prima che scattassero quella fotografia. Non ci posso far niente: le riunioni di famiglia mi rendono triste, non ce l’avevo fatta a rimanere con i miei colleghi che celebravano il lutto perché le loro azioni e obbligazioni erano diventate carta straccia, mi annoiavano. (L’attore-personaggio è completamente inondato da una violentissima luce color oro). Quelli là, d’altra parte, erano dei dilettanti, per loro l’oro (se mi distraggo un attimo mi vengono pure i giochi di parole - ridacchia) era una necessità più che un fine. Per me è diverso, io vivo per quello e non venitemi a dire che sono una caricatura da due soldi di Paperon de Paperoni o un Arpagone di maniera. Se mi dovete criticare, almeno trovate degli argomenti più plausibili, perché a questi non ci crede proprio nessuno! Tutta invidia e rancore: non capisco che abbiate da essere tanto rancorosi, tutti possono avere il loro oro, anche voi, ma bisogna seguire le regole e le regole sono ferree ed è inutile che speriate che io vi regali il mio, poveri illusi!

Parte in sordina Gold degli Spandau Ballet, che poi diviene sempre più forte, ma senza esagerare. L’attore-personaggio la canticchia nel modo più stonato e fuor di sesto, producendo infine dei suoni che cancellano la song e le si sostituiscono.

Che c’è? Non si può nemmeno pregare? Ognuno ha diritto di credere in quello che vuole e io non credo in niente che non abbia colore giallo. Pepite, filoni, polvere, monili, gioielli, lingotti, sbarre, mattoncini, mi va bene perfino la placcatura, se è fatta bene. Beh, c’è poco da dire: la storia dell’umanità ha toccato un unico apice nella sua disastrosa trama di fallimenti: re Mida. Quello è l’unico uomo per cui abbia mai provato invidia, che è un sentimento che non ho mai avuto il tempo di avere, anche se il finale della sua storia mi fa arrabbiare. Ma vi rendete conto: a quello venne in mente (chissà chi glielo aveva messo in testa? Senz’altro qualcuno che lo invidiava!) che trasformare tutto in oro fosse una maledizione e per questo pregò Dioniso di liberarlo dal suo potere, perché ne aveva paura, terrore, una fifa matta, sì figurati! Che occasione sprecata! Che perdita per l’umanità!

Un attimo di pausa, l’attore si fissa su un qualsiasi oggetto dorato e con una voce piena di desiderio dice:

Il vino si trasformava in quella bocca in liquido oro, tutte le ragazze che toccava diventavano statue e popolavano il suo letto di metallici trionfi. Il re viveva in un presepe a ventiquattro carati, non c’era cibo che riuscisse a passare indenne da quelle labbra aride e felici; aride per la polvere d’oro che sfregavano continuamente, felici perché tutto ciò che baciavano diventava eterno, senza più dover subire compromessi osceni con la vita. Da allora, da quando lessi quella storia (avevo poco più di nove anni) l’oro è diventata la mia missione e la mia carriera. Poco dopo mi sono imbattutto anche, ridendo a crepapelle, nella vicenda dell’uomo che per me da allora è il simbolo del fallimento e dell’idiozia dell’umanità: Johann August Suter, che voleva impedire la corsa all’oro in California, perché gli danneggiava i raccolti di mele e pere. Ne aveva fatto un caso personale, gli era presa talmente male che quello a momenti faceva una guerra contro i cercatori che poi giustamente lo fecero fuori! Ma si può essere più scemi di così!
Dicono che il denaro è lo sterco del diavolo, ma non è vero, quello vale solo per la cartamoneta. Quella schifezza che diventa sempre più laida ogni volta che viene toccata, io non l’ho mai potuta sopportare. Ogni tanto, per quanto faccia lavorare tutti i miei segretari come matti per risolvere questo problema, mi tocca toccarla e mi viene il voltastomaco: è come un bruco schifoso e il suono che fanno le banconote quando si accartocciano, mi fa accapponare la pelle, come se stessi schiacciando un plotone di lumache con antenne lunghe, lunghe che mi fanno il solletico e mi lasciano una bava urticante, che brucia, brucia! L’oro invece è pulito, mi ci posso specchiare, mi ci posso perfino lavare le mani e la faccia. Mi sono fatto anche una clessidra piena di polvere d’oro, perché niente meglio di questo mi fa capire che il tempo passa, ma io sono sicuro che se l’oro lo pago abbastanza bene e gli sacrifico abbastanza metallo, allora il tempo passerà come voglio io. L’oro è un riparo, una difesa, una passione e una ricerca, un lavoro e una religione: I believe in Gold! (un eco debole e distortissimo della stessa canzone degli Spandau Ballet, a cui l’attore-personaggio fa eco).
L’attore-personaggio si rivolge ai suoi malcapitati ex-colleghi della Banca Centrale. Torna l’immagine del quadro
D’altra parte si è sempre parlato di un’età dell’oro, mica del cemento o del polistirolo! (Compare, dissolvendosi l’immagine precedente, L’età dell’oro di Pietro da Cortona, che il personaggio-attore contempla con avidità). Lo so anch’io che è tutta una metafora, ma non sarà mica stata usata per caso; gli antichi volevano dire che nell’età in cui l’oro sarebbe stato messo al primo posto, allora e solo allora la felicità sarebbe stata generale. (si mette a cantare una canzone, prima biascicandola a più non posso, poi in modo sempre più chiaramente distinguibile, si tratta de L’età dell’oro di Leo Ferrè, da cantarsi con tutta la possibile sgangheratezza da chansonnier)
Noi avremo un pane
Dorato come le ragazze
Sotto i soli d'oro
Noi avremo un vino
Di quello che frizza
Anche quando dorme
Noi avremo un sangue
Dentre le vene bianche
E per sempre allora
Lunedi sarà domenica
Ma la nostra età
Sarà l'età dell'oro
Noi avremo letti
Scavati come ragazze
nella sabbia fine
Noi avremo frutti
Quelli che si graffignano
Nel campo vicino
Noi avremo certo
Dentro le case smorte
Tutti i lampioni azzurri
Che lassù se ne vanno
Ma la nostra età
Sarà l'età d'ell'oro
Noi avremo il mare
A due passi dalla Stella
Nei giorni di gran vento
Noi avremo l'inverno
Con una cicala
Nei capelli bianchi
Noi avremo l'amore
Dentro i nostri problemi
E i nostri discorsi
Finiranno con "ti amo"
Venga venga allora
Venga l'étà d'ell'oro

Avete sentito che bella favola, riscalda il cuore, ma c’è un errore grave: l’autore sbagliava il mezzo con il fine, le ragazze con l’oro, che dilettanti ‘sti letterati!
Lo so anch’io che certi passatempi non sono tanto salutari, ma per l’oro questo ed altro. Non c’è limite al mio desiderio, non c’è freno alla mia passione. Io lo mangio, poi lo trasformo in rifiuto ed è sempre oro. E’ l’unica materia al mondo che non subisce mai alterazioni; gli posso fare quello che mi pare e lui mi rimane fedele per l’eternità e non mi tradisce mai. (si interrompe per un attimo) Come? L’oro non fa la felicità? Posso comprarci il corpo di qualcuno, ma non il cuore? E a me che me ne frega del cuore? Quel che voglio io invece è proprio il corpo. Quando noleggio una ragazza dai miei soliti fornitori, voglio che sia vestita d’oro, sono io che passo alla ditta una serie di oggetti cerimoniali e voglio che la ragazza di turno li indossi tutti quanti prima di avvicinarsi a me, se no non le ammetto nemmeno a casa mia. Poi le dipingo tutte d’oro; quelle all’inizio recalcitrano, urlano; poi ricordo loro che prenderanno un bel po’ d’oro per essere dipinte d’oro (ho una mia tradizione, per cui le pago con un sacchetto di monete antiche, talleri o ghinee e quelle quando lo aprono fanno un sorriso a trentadue denti, che mi dà una gran soddisfazione) e allora, come per magia, stanno zitte, quelle galline e fanno quello che voglio io. Non è vera quella storia che se gli dipingi la pelle tutta d’oro, poi muoiono perché la pelle non respira più. Scemenze: l’ho fatto centinaia di volte e poi basta una passata di spugna per toglierlo. Però mi dispiace e ci metto un bel po’ a staccarmi da quei corpi decorati, passo ore a rimirarli. Quello che mi piace e che mi interessa è specchiarmici. Quelle ragazze d’oro sono il mio specchio: l’immagine della mia anima.

Musica L’amore di Danae di Richard Strauss – immagine Mabuse, L’amore di Danae

L’attore-personaggio si guarda allo specchio, parla sottovoce, è come se si stesse raccontando una favola ed è esattamente questo che fa, si/ci racconta una storia come illusoria pausa lirica nella sua crudele disamina metallica. La musica di Strauss che narra l’episodio della seduzione e dello stupro per tramite della pioggia d’oro, rimane fino alla fine del racconto in sottofondo, mutandone l’intensità a seconda della bisogna.

Danae era figlia del re Acrisio: una sibilla disse al monarca che il figlio di sua figlia, la belliiiissiiiima e da tuttiiii amaaata Danae, lo avrebbe ucciso. Per questo egli la chiuse nella stanza più nascosta del suo palazzo, nel più tetro sotterraneo, nella carcere più crudele, serrando ben strette le catene. Eppure l’oro si fece strada fino a lei e fu salva e la profezia si avverò puntualmente. Giove si trasformò in finissima polvere e penetrò fino a lei; la pioggia d’oro esaltò la ragazza che divenne, secondo le regole, madre del futuro assassino di suo padre, (improvvisamente il tono da elegiaco si fa decisamente cattivo e sarcastico) bla, bla, bla, bla, bla, bla, bla. C’è poco da dire: la parte finale di questa storia io non l’ho mai sopportata. La predestinazione mi annoia quanto l’obbligo del lieto fine, la morale per me è un’altra: niente ferma l’oro. Il metallo scorre e spunta fuori dalle viscere della terra e va dove gli pare trovando tutte le strade più imprevedibili per giungere alle mète che gli interessano.
Un giorno mi aveva chiamato un mio amico finanziere e mi aveva detto: vai nella Sierra Pelada in Brasile e compra un appezzamento di terreno e io l’ho fatto, subito: trentadue ettari. Sono stato io, sì proprio io, a inventare quel sistema che non falliva mai. (parte una fotografia o anche più di una della serie di Sebastiano Salgado sulla Sierra Pelada con i garimpeiros che scalano faticosamente la montagna con le gerle in spalla, il personaggio-attore ridacchia). Tutti quei cercatori che andavano là credevano di essere liberi, ma invece guarda un po’ erano tutti miei schiavi; ero io che gli vendevo da mangiare e da bere e dovevano ballare sulla musica che volevo io. Dovevano arrampicarsi sulla motagna (indica con fare didattico e professorale la o le foto di Sebastiano Salgado), spaccarsi la schiena e riportare giù ogni volta un sacco pieno di fango. Alla fine della giornata potevano scegliere uno dei sacchi che avevano trasportato e tenerselo, dentro poteva esserci la ricchezza, la libertà, oppure niente. Beh, guarda caso, per lo più non c’era niente, ci pensavo io che le cose andassero così che se no poi quelli si montavano la testa, comunque mi erano tutti grati: vorrei vedere: gli vendevo la speranza! Quella vale tanto oro quanto pesa e tutti sono disposti a tutto per non perderla. Ogni mese andavo in pellegrinaggio a vedere il raccolto d’oro: era un momento sacro, mi chiudevo in una baracca di legno che mi ero fatto costruire e poi passavo il tempo in ammirazione delle pepite che avevano trovato i miei schiavi, alcune simili a pigne, altre a sfere, altre ancora informi quanto enormi e simili solo all’oro, nel suo massimo fulgore. Poi è stata una tragedia, quella miniera l’hanno chiusa e ora l’oro mi tocca andarlo ad adorare nelle banche e non è proprio la stessa cosa, il rapporto è meno carnale e poi ci sono quegli sguardi rancorosi dei cassieri, dei contabili, che son sempre a spiarti, quando vai alle cassette di sicurezza, ma bisogna accontentarsi, con i tempi che corrono. Di recente ho fatto un sogno:

Mi muovo verso la mia Rolls-Royce color oro, quando una giovane donna con un alano bianco a macchie nere mi passa accanto. Era sempre lei che rideva su un manifesto attaccato dappertutto da quella parte della strada, con la stessa minigonna rossa, e l’alano era lo stesso che mi guardava male quando ero arrivato. Il marciapiede è sovraffollato, è come se lei passi attraverso la gente, io la seguo, perché, senza che mi dica niente, so che lei conta sul fatto che io la segua, e mentre la seguo arriviamo nella città vecchia, nella zona pedonale, in quella piena di vetrine di gioielleri dove passo il tempo. Entro in un mondo fatto d’oro, l’oro turbina in cielo, l’oro piove dalle nuvole, l’oro lastrica la strada. Passo davanti a gioiellerie, vetrine con bambole alla moda che hanno facce, spalle, braccia, mani e gambe d’oro, come reliquie di santi immaginari di secoli da troppo tempo dimenticati. Un’altra vetrina è piena di maschere dorate, nella vetrina di una galleria d’arte sono esposte sculture astratte dorate e in un’altra lampade d’oro, che luccicano in modo incredibile, fanno quasi male agli occhi. La ragazza apre un portone, scompare con l’alano nel palazzo. Quando raggiunge il portone, è chiuso. Il palazzo, alto e fatiscente, stona con il centro storico restaurato tutt’intorno. All’improvviso si sente un ronzio e il portone si apre. Pareti nude, una scala sempre più stretta, infine una porta di legno marcia fino in fondo. Non è chiusa a chiave: una stanza semplice, alcune poltroncine, una scrivania, un televisore, un’altra stanza, un tavolo, alcune sedie, una stanza da letto, sul grande letto la ragazza, nuda, davanti al letto l’alano bianco a macchie nere. Mi prende un desiderio sfrenato e di cui ben capisco il motivo. Il desiderio sfrenato di continuare a vivere, di vivere in eterno, di vivere nella dorata immagine di me, nella rifrazione di infinite maschere d’oro. Mi strappo i vestiti di dosso e mi getto sulla ragazza, ma lei è tutta d’oro, l’alano ride e io rido con lui. Nell’aria c’è un rumore stridente. Cicale d’oro friniscono annullando il suono del vento e ragni d’oro filano tele in cui vorrei perdermi, per esser mangiato dai tessitori e fondermi a loro.

Beh, più che un sogno è un desiderio, mi sono poi svegliato, finalmente consolato e ho pensato a Pluto, il dio della ricchezza. Per gli antichi era cieco, perché le sue regalie dovevano colpire a caso, senza discriminazioni né distinzioni. Che consolazione per i poveri, quella di credere che in definitiva per loro c’è sempre una ultima chance, anche senza far nulla; che basta aspettare e i soldi ti cascano addosso dal cielo! Non è così, ve lo garantisco: l’oro non va guadagnato e basta, va propiziato, attratto, lusingato, sedotto, implorato e soprattutto ringraziato: è come avere a che fare con un essere umano, anzi di più. Non si può credere di trovare il grande amore della propria vita solo affidandosi al sogno, bisogna darsi da fare. Agire. L’oro ama l’azione, è l’unica cosa che gli piace, quello è l’unico modo di procacciarsi il suo rispetto, di farsi prendere sul serio. E pensare che c’è chi dice: “non vi fidate dell’oro anche portato in dono. L’olio d’oliva può servire per pagare bilanci. Lo zolfo e i vetri di Venezia possono servire a pagare bilanci”, ma sì, figurati, povero illuso! (Comincia a infervorarsi sempre di più, urla, è scomposto, ripete la stessa formula più volte, all’inizio come un mantra e poi con sempre maggiore violenza) In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. Tutto il resto non conta, non conta niente. (Parte Goldfinger nella versione remix dei Propellerheads, lentamente diviene sempre più forte e il lunghissimo acuto finale cancellerà tutte le parole) Non contano le lettere d’amore (brucia una lettera), non contano le dichiarazioni d’amicizia (brucia un altro foglio), non conta nulla, proprio nulla, a parte l’oro. Mentre esplode la musica, torna l’immagine del quadro iniziale, una luce color oro avvolge il personaggio, che fa a pezzi freneticamente dei fogli di cartamoneta del Monopoli.

The End