Bolle Di Sapone
Bolle di sapone
Storie di India
di Luca Scarlini
Bolle di sapone: quelle della storia che avrebbe potuto essere e non fu. Bolle di sapone: quelle prodotte qui dalla Mira Lanza, con i suoi molti prodotti che appunto finivano nell’uso quotidiano in bolle di sapone, come le fabbriche di Roma che nessuno ricorda più. Roma è stata una città industriale, prima di essere confermata come capitale del turismo, profano e sacro. Il ponte di ferro, dall’altra parte della strada, lo aveva benedetto Pio IX, sì, proprio lui, che quando lo avevano trasferito di cimitero, la gente urlava alla bara: “A fiume, a fiume”. Si sa: aveva ostacolato per almeno trent’anni l’unità di Italia, difficile rimanere simpatici quando si va contro quelli che vincono. Eppure anche lui, conservatore come pochi, tra un dogma dell’immacolata concezione e un sillabo violento contro tutti gli aspetti del moderno, aveva capito che questo luogo sul fiume poteva essere il punto in cui sarebbe nata una nuova Roma, meno legata al passato, al peso della memoria. Chiaro che non sarebbe stata lui a realizzarla; si capisce già a vederlo su quel ponte, spaurito dalla luce troppo forte che gli batte in faccia nell’antica fotografia, sembra terrorizzato, già fantasma in vita. Forse vedeva i Savoia a Porta Pia e i suoi svizzeri sconfitti, capeggiati dal vanesio e inefficace generale Kanzler, tanto eleganti nelle uniformi disegnate da Michelangelo, ma destinati a perdere senza scampo.
Gli anni dopo il 1870 a Roma furono quelli dei palazzinari: anni di pietra e stucco, di cemento e corruzione, speculazioni e distruzioni, anni insomma di vendita e svendita di terreni della capitale, dove la chiesa si riprese in soldi quello che aveva perso in potere, visto che tanti terreni erano proprio suoi. Come accadde con la centrale Montemartini, qui vicina, che apparteneva un tempo alle Oblate della Nobile Casa di Tor de Specchi. Era quella l’epoca in cui i “buzzurri” del Nord, arrivati con la Capitale, lentamente si integravano. Prima che scoppiasse lo scandalo della Banca Romana, che svelò non pochi altarini subito coperti da adeguati drappi, quelli entravano un po’ per volta nelle famiglie nobili papaline per matrimonio, saziavano le loro brame di lustro e possesso, mentre i gattopardi de noantri, ben convinti, che tutto doveva cambiare perché niente cambiasse, restauravano palazzi tarlati e toglievano ipoteche ai feudi pieni di ragnatele. Un quadro di quel tempo di Francesco Gaj rappresenta i Savoia in visita ai Principi Brancaccio, al palazzo loro di via Merulana, dov’era un giardino esotico famoso. Lo sguardo della famiglia piemontese è rapace, avido; sono come alieni arrivati su una terra antica per impadronirsene in corsa, acquisirne nel tempo più breve lo stile, imitarne il fasto. Eppure le architetture loro a Roma furono pacchiane per lo più, pesanti, marmoree come il Palazzaccio o il Vittoriano, monumenti coriacei, duri da mandar giù. Camillo Boito, gran censore delle arti italiche, così scriveva in un suo articolo intitolato perfettamente Spavento per le grandezze di Roma. “Per comporre uno stile moderno, creando parimente un organismo nuovo e una estetica nuova. I palazzi rischiano di essere cacciati nel mezzo delle brutte vie moderne o dei quartieri nuovi, schiacciati dalle brutte fabbriche dei nostri architetti, che sembrano sgomentati e che gli tremino le mani. Eppure Roma offriva tutti gli elementi per uno stile moderno, creando parimente un organismo nuovo ed una estetica nuova.. Tra il Bramante e il Bernini si trova senza uscire da Roma e senza allontanarsi dalle derivazioni classiche, un mondo intiero di concetti artistici e di forme ornamentali”. Altro che rimandi classici armoniosi: monumenti pesantissimi e dimore-mausoleo, opere brutte, anche volgari, segno chiaro del cambio di mano sul Tevere, delle velleità di grandezza dei nuovi padroni dell’Urbe.
Di industrie e centri di produzione dal 1905 se ne fecero o se ne tentarono molte da questa parte dal Tevere, tra Ostiense e Marconi, perché c’era il fiume vicino, l’acqua era a disposizione e la linea del treno passava accanto e si poteva potenziare; proprio nel 1905 si aprì la stazione di Trastevere, che prima era verso piazza Ippolito Nievo e poi venne spostata dov’è oggi. Di quel tempo in cui Roma avrebbe potuto diventare capitale industriale dell’Italia centrale, restano tracce, talvolta cancellate, memorie, poco più, sembra che nessuno se ne ricordi, che tutti quei progetti e quelle realtà siano stati risucchiati dalla polvere e dall’ombra. Dall’altra parte del fiume sta il Gazometro, poco lontano la centrale Montemartini. Tutti e due quei monumenti di un moderno incompiuto hanno dietro un’idea, che ora davvero non va più di moda: l’energia doveva essere pubblica, non nelle mani degli speculatori. Il signor Montemartini, baffoni alla Vittorio Emanuele, sorriso aperto, carattere cordiale, ma deciso, lombardo (era nato a Montù Beccaria, Pavia), chiamato a Roma dal sindaco Nathan, era il maggior teorico di questa idea in Italia e si fece in quattro perché l’energia elettrica fosse alla portata di tutti, battendo così l’avida Impresa Elettrica Anglo-Romana, che allora spadroneggiava. Nathan fece di tutto per spostare il centro della città da San Pietro, costruì addirittura il quartiere Prati-Trionfale, in modo che la cupola da là non si vedesse e si batté a fondo perché Roma diventasse moderna, nel tempo in cui Sibilla Aleramo e Giovanni Cena aprivano scuole popolari nel malarico Agro Pontino, terra di ignoranza e malattia, che di lì a poco avrebbe visto gli elementari miracoli di Maria Goretti. Nella centrale ora c’è un museo e d’altra parte fin dall’inizio la bellezza era stata legata all’utile in quel complesso, come fu in altre strutture industriali di quel tempo. I lampioni illuminati per la prima volta da energia elettrica pubblica erano di un grande artista, Duilio Cambellotti, che in quegli anni decorava la notturna casina delle civette di Villa Torlonia. Classiche fanciulle si rincorrevano sulle superfici di ghisa e ora, a celebrare quel desiderio di rinnovamento mai andato in porto, forse per caso e forse no, a guardarle c’è Pothos, il Dio della nostalgia, figlio di Afrodite, che celebra quello che poteva essere e che non fu. India, che un tempo fu Mira Lanza, ha la struttura di una costruzione romanica e il rosso del mattone ne illustra la struttura, valorizzando lo stile del luogo e il lavoro delle maestranze artigiane che ne permisero la creazione. I Mercati Generali, invece, che pur manipolati nella loro struttura restano sempre impressionanti, beh, per quelli servì anche un po’ di schiavismo, come al tempo dell’antica Roma.
FRANZ BIRNBAUER Ho combattuto sul Carso e sull’Adige per dio e per la patria. Sono arrivato a Roma nel 1919, su un carro bestiame, mi avevano detto che facevamo presto. Ci siamo fermati invece a Modena, poi a Prato e alla fine dopo una settimana siamo arrivati a Roma. Mangiavamo poco e male, io non parlavo nemmeno una parola di italiano, nelle stazioni, quando capivano che eravamo prigionieri austriaci, le persone ci venivano vicino e ci sputavano contro. Un nostro commilitone, di Bolzano, ci traduceva gli insulti, le maledizioni e noi zitti, a testa bassa. A Roma ci hanno fatto arrivare alla Tiburtina e poi ci hanno fatto scendere, mandandoci in un vecchio collegio, che per noi fu prigione. Dal giorno dopo venne un prete, don Aurelio, che parlava tedesco, perché era stato a Vienna per tanti anni. Lui ci spiegava che le cose si sarebbero messe bene, ma che noi dovevamo pazientare, se ubbidivamo agli ordini la nostra prigionia sarebbe stata più breve. Maledetto me, che quando mi chiesero cosa facevo al mio paese, dissi che ero maestro muratore. Ci dissero: farete il nostro mercato e noi a ubbidire. Ho messo più mattoni al loro posto di quante ci sono stelle nel cielo e non è che fossi orgoglioso del lavoro mio e degli altri schiavi, che io dirigevo. Uno, Friedl, poco prima che smettessimo di lavorare, al crepuscolo, guardava il Tevere e scoppiava a piangere, pensando alla sua fidanzata che lo aspettava a Graz. Dopo due anni siamo stati liberati, appena arrivato a casa ho riabbracciato la mia Annchen e i bambini e gliel’ho detto detto chiaro a tutti e tre, a Roma da quegli schiavisti degli italiani, mai più.
La Mira Lanza venne costruita da maestranze locali e nasce da una fusione di due ditte rivali: la fabbrica veneta di Mira e quella ligure del cavalier Lanza, rivali nelle cere e nei saponi, che nel 1924 si unirono in matrimonio di interesse, scegliendo a presidente Lodovico Toeplitz, gran finanziere e a suo tempo sostenitore dell’avventura di D’Annunzio a Fiume. Toeplitz era un uomo inquieto: dirigendo banche di ogni tipo (tra cui quella che oggi si chiama Intesa) scrisse infatti libri dimenticati dai titoli appunto dannunziani, come Si rinnova la vita e fu a lungo legato al cinema, producendo film e alla fine ritrovandosi anche sullo schermo nelle vesti di Valsecchi nel Don Giovanni in Sicilia di Lattuada. Gli stabilimenti delle due ditte erano a Torino, Rivarolo (Genova) e Mira (Venezia). Roma faceva parte del gruppo; già nel 1899 il comune aveva ricevuto il progetto, firmato dall’ingegner Pietro Filippucci, che chiedeva il permesso di istituire a via di Pietra Papa la “Società dei Prodotti Chimici, Colla e Concimi”. Nel 1918 lo stabilimento, nel frattempo rielaborato nella sua struttura, era stato comprato dalla “Società italiane di candele steariche di Mira”. Tanti gli edifici aggiunti fino al 1934, in mezzo a quelli industriali e alla vezzosa palazzina Liberty che serviva come alloggio ai dirigenti, stavano mucchi di sansa, dall’odore greve, da cui si faceva il sapone. I frantoi ne portavano a ciclo continuo, la fabbrica ne voleva sempre più, via via che il successo del prodotto cresceva. Sembrava che sarebbe durata per sempre e fu proposto anche un ultimo progetto di ampliamento, in linea con le monumentali creazioni dell’EUR, ma la guerra lo impedì. Nel frattempo una parte del complesso, già nel 1918, era stata venduta al comune di Roma come scuola, poi nel 1952 tutto finì e solo pochi seguirono il destino della ditta a Mira o a Genova, i più tenevano famiglia, erano romani, legati alla città, si sentirono traditi e rimasero senza lavoro.
Tanti degli operai della Mira Lanza infatti venivano da Testaccio, quartiere che dava manovalanza alla città, prima per i campi e ora per le industrie. Come ci vivevano in quel quartiere allora disagiato ce lo racconta Domenico Orano, filantropo e uomo d’azione, che decise di frequentare quei luoghi lungamente, per testimoniare il disagio delle masse popolari. “Il popolo è, malgrado tutto, più buono di quello che noi crediamo. Nessuno di noi può rimproverargli quello che fa, perché la società e il suo regime sono i responsabili della sua esistenza. Una società ancora di dominio di pochi e non dei migliori, che prevale sopra la grande massa con una organizzazione politica i di cui estremi tangibili nel popolo sono il carabiniere e il parroco. Nell’esistenza promiscua dei sessi, nella convivenza di esseri sani e malati – sifilitici e tubercolosi, vecchi e giovani – ho compreso il dramma misterioso di questo popolo, al quale lo stato impone leggi morali e sanzioni penali, ma lo lascia nell’abbrutimento e nell’asservimento economico”. Parole chiare, durissime, che valgono anche per tutte le baraccopoli e le periferie impresentabili a venire nella Città Eterna. Lavorare alla Mira Lanza per tanti significava una possibile sicurezza economica, una immagine di futuro per sé e per la propria famiglia.
MARIA TERESA FARINA Quell’orologio là? Quello lo fece il padre del padre di mio nonno alla Mira Lanza. Quello si tramanda per tradizione da famiglia a famiglia. Mio padre lavorava alla Mira Lanza come come elettricista. Era entrato una settimana in prova e ci ha lavorato per quarant’anni: mica un giorno. Mia mamma anche lavorava alla Mira Lanza: nel reparto profumeria. Era una famiglia. La Mira Lanza allora era veramente una famiglia, perché andavano tutti quanti d’accordo. Saraà stato perché ancora c’era l’onestà, c’era l’affetto. Erano tutti alla mano, tutti alla buona, se avevi bisogno di qualcosa, lo chiedevi e te lo davano. Poi, purtroppo a un certo punto, nel 1952, questa Mira Lanza l’hanno chiusa. Chi voleva seguire la Mira Lanza doveva andare a Genova, a Mira, a Rivarolo e a Venezia. Tante famiglie sulla strada Te saluto core. (la voce si rompe) Te saluto core.
Ma noi le storie degli operai mica le sapevamo. Sapevamo invece una canzone: “Mira, mira l’Olandesina, Mira Lanza ti è vicina”, così cantava un antico ritornello del Carosello dell’infanzia, per far la propaganda a una raccolta di punti miracolosi, i punti Mira Lanza, appunto, ambiti da casalinghe di ogni dove. Comprando i detersivi di questa marca, si potevano vincere lavatrici, frullatori e perfino televisori, simboli certi del progresso italiano. In specie era ambìto l’ultimo e più costoso premio, su cui si sarebbe potuto vedere tutto il repertorio della benefica ditta saponifica. A forza di pubblicità Calimero, inventato da Nino e Toni Pagot insieme a Ignazio Colnaghi nel 1963, è diventato infatti la versione italiana del brutto anatroccolo, il suo patetico guscio in testa ben spiegava l’italica fedeltà, ossessiva perfino, alla mamma, unica certezza del disagiato vivere. Il pulcino nero, e perciò disprezzato, ritrovava la sua felicità, quando messo in lavatrice, diventava infine bianco e tutti noi bambini potevamo ripetere in coro, sollevati: “Ava come lava”. Poi dopo Carosello, contenti di tutta questa bianchezza, tutti a letto.
Una immaginazione un po’ razzista, no? Calimero nero proprio non ci andava giù e allora il detersivo lo rendeva uguale a noi, sicuro nell’affetto della sua mamma, come noi lo eravamo della nostra. D’altra parte a quell’epoca di neri se ne vedevano pochi: qualche pionieristico prete africano, qualche “marocchinato” figlio della guerra e delle segnorine, come la famosa Tammurriata nera ancora ci ricorda, qualche somalo e etiope in arrivo dalle colonie, quando ancora facevamo la raccolta fasulla della carta stagnola per le primavere missionarie. E poi, cosa non facciamo noi per la mamma e soprattutto cosa non fa la nostra mamma per noi. Il sapone è il mondo della mamma, dove noi possiamo con incoscienza sporcare qualsiasi cosa, rotolarci nel fango e nella polvere tanto poi tutto torna pulito, lindo, perfetto, come nuovo.
Non a tutte le mamme basta il detersivo per rimettere a posto il mondo, per togliergli lo sporco da dosso, certe macchie non vanno proprio via, restano, indelebili. Il ponte di ferro è un luogo triste di mamme che hanno sacrificato se stesse per i figli. (cambio di voce, come se si trattasse di un cinegiornale luce all’inizio, poi con voce più partecipe) Roma è stata prigioniera per duecentosettantuno giorni dei nazisti e dei fascisti amici loro, dal 9 settembre 1943 al 4 giugno 1944 e mentre i partigiani progettavano l’insurrezione e facevano attentati e i borsaneristi diventavano grassi sulla pelle dei poveri, le mamme facevano il mestiere loro: cercavano da mangiare per i bambini, in un momento in cui la fame era la regola e si mangiava di tutto, con le bucce delle patate ci si faceva il pane e non si trovava più nemmeno un gatto da travestire in pentola da coniglio, per non spaventare i ragazzini. Non troppo lontana da qui venne ammazzata Caterina Martinelli, colpevole di aver rubato una forma di pane. Il giorno dopo un cartello con una scritta apparve: “qui i fascisti hanno ammazzato Caterina Martinelli una madre che non poteva sentir piangere dalla fame tutti insieme i suoi figli”. Povera lei e povere anche di più le altre dieci che vennero uccise sul ponte di ferro, pochi giorni dopo. Era il 7 aprile del 1944, la primavera non voleva venire, il cielo era grigio, stento. Faceva freddo. Una fila di donne magre, rose dalla fame, aveva dato l’assalto con una banda di ragazzini al mulino Tesei, qui vicino, dove si diceva che ci fosse nascosto il pane. La loro azione era dettata dalla fame, ma era anche un sabotaggio contro l’occupante. Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistoleri, Silvia Loggreolo. E chi se le ricorda? Una sequenza di nomi senza volto, da poco commemorate, sul ponte, da una lapidina che sfugge alla vista nel traffico continuo. Il loro crimine era stato quello di cercare di dare da mangiare ai figli, ai fratelli, per questo tedeschi e italiani le avevano fucilate, seduta stante, sul ponte, anche se quelle imploravano pietà. Una di loro, la più giovane, prima di essere uccisa, era stata violentata; il suo corpo era sotto il ponte, straziato. Due suore avevano pregato per loro, mentre quelle che erano sfuggite all’arresto facevano una veglia funebre a distanza, nascoste dalle siepi. Nel 1948, per volontà di Carla Capponi e di altre deputate comuniste, una lapide venne messa, piccola, a ricordare un gesto che era stato di disperazione, ma anche di rivolta e sabotaggio contro gli occupanti e i loro alleati, ma a qualcuno dava noia, la distrussero con una bomba. C’è voluto tanto prima che ne mettessero un’altra, che ora c’è, ma piccola e che resta sullo sfondo, invisibile, nel flusso del traffico di ogni giorno.
Questi luoghi sembrano quindi legati solo al moderno, come ci spiegavano le poesie di Pasolini sul Gazometro, le foto di Eliseo Mattiacci, che provava qui il movimento dei suoi famosi tubi snodati, di fronte al futuro India, a cavalcioni della motocicletta, come se fosse il frammento di un’America immaginaria. Per questo poco li aveva amati la Scuola Romana, che preferiva i vecchi quartieri, al limite in macerie o sventrati dalle politiche mussoliniane e gli interni magici, e che senz’altro era più tentata dal ritratto e dalla natura morta. Solo Melli e Vespignani hanno diretto il loro obiettivo da questa parte, gli altri proprio questi luoghi non li volevano vedere, forse perché appunto troppo legati al moderno. Eppure da queste parti sono successe tante cose, vicino a India, ci abitava niente meno che il prototipo della maliarda, come ci hanno rivelato i frammenti degli Horti Cesarei, ritrovati dopo una piena del Tevere nel 1943.
Cleopatra passeggia su e giù in mezzo al palmeto, rimproverando il giardiniere.
Aruzio nella sua lingua stentata.
CLEOPATRA Sarà mai possibile che metti sempre le palme all’ombra? Ci credo che non crescono, le palme hanno bisogno di sole.
ARUZIO E io che ne so, padrona? Io sono di Rieti e da me le palme non ci fanno. Io sono abituato a piantare le rose.
CLEOPATRA Aruzio, sei indisciplinato e mi manchi di rispetto, ti farò frustare da Pietro Corneio.
ARUZIO No regina, ti prego in ginocchio, risparmiami, Pietro Corneio ha la mano pesante.
CLEOPATRA E allora tu mi sposti le palme e subito.
ARUZIO (in ginocchio) Sì, saggia regina, dove le devo mettere, tu dimmelo e io le sposto.
CLEOPATRA Ma che vuoi che mi importi, cosa faccio la giardiniera? Pietro Corneio, spiegaglielo tu a questo sfaticato dove deve piantare le palme.
Cleopatra si annoia, il Tevere non somiglia al Nilo, Cesare è caro, ma non la nomina regina ufficialmente e lei ha da mantenere il suo mito, senza cui non può vivere.
Qui un tempo c’era l’attrezzeria Rancati, premiata ditta attiva dal 1864, dove stavano insieme con le memorie della Hollywood sul Tevere, anche tutti i gioielli di Cleopatra, del film con Liz Taylor: le corone con le gemme, i diademi, il braccialetto a forma di aspide, che faceva capire subito al pubblico come sarebbe andata a finire la storia. Ma la Cleopatra non è quella là dello schermo, è proprio l’originale. Cesare l’aveva portata a Roma nel gran trionfo e però aveva subito capito che se la teneva con quelle altre matrone del potere, le perfide Giulie Claudie, sarebbe stata guerra aperta. Di fronte ai futuri magazzini Rancati, deposito di ogni spoglia del cinema e del teatro a Roma, Cleopatra scalpitava, perché sentiva di non avere conquistato il ruolo che sentiva a lei congeniale: quello di regina del mondo conosciuto. Poi c’era poco da fare: quel fiume giallo e fangoso le era venuto a noia da un bel po’ e tornare alla sua reggia tra i papiri, così dicono le cronache, per lei fu un sollievo.
Tra India e la Centrale Montemartini vuole una tradizione che si trascinassero con occhi pieni di fede Pietro e Paolo, gloriosi martiri del Signore, andando verso i rispettivi supplizi, in luoghi separati di Roma. Una chiesetta, vicino alla centrale Montemartini, ne ricordava l’ultimo addio, finché non venne distrutta nel Novecento. Nemmeno i fondatori della Chiesa poterono aver quiete al loro simulacro, mentre tutto passa e cambia, in rapida vertigine.
Tanti fatti e tanti posti e dall’altra parte della riva i fantasmi di due luoghi sacri e profani a un tempo. San Paolo fuori le Mura, la gran chiesa, era legata al destino dei papi, a ognuno che si aggiungeva sul soglio si lasciava il posto per la statua. Nell’800 lo spazio era quasi finito e una leggenda antica si avverò, quando nel 1823 la chiesa prese fuoco e bruciò tutta o quasi e andò in fumo in una notte uno dei simboli più amati del potere vaticano. La cenere invase l’aria tanto che non si poteva respirare, riempiva il cielo e il fiume, molti piansero la chiesa e tra gli altri Giacomo Leopardi, che ne parla in un’accorata lettera familiare. In epoca di contrasti e minacce, quando il terrore rivoluzionario era ben vivo, il papa volle ricostruirla come monumento alla chiesa trionfante, ma il fascino e la magia di un tempo erano perduti per sempre. Ormai era un luogo di grande lusso, ma per molti senz’anima, e i viaggiatori furono tutti all’unisono per una volta. Per Zola: tutto è pomposo, solenne e vuoto, marmo che specchia. Peggio ancora per Faldella che la definì una vera sala da ballo, con due ali fatte apposta per il mormorio di una folla nobile e con un pavimento lucido degno di riflettere gli inchini delle quadriglie e i circoli di un valzer. Eppure, malgrado tutto questo fasto e questa formalità, qualcosa di rivoluzionario accadde anche qui, quando l’abate Giovanni Franzoni nel 1968, ben sentendo le urla dalle barricate, trasformò la chiesa in un luogo di discussione e politica, finché non venne costretto alle dimissioni nel 1973 e il pavimento della sala da ballo si infuocò questa volta di discorsi che ad alcuni parvero rivoluzionari, finché arrivò la sospensione a divinis. Raccolto e melanconico è invece l’amatissimo cimitero acattolico alla Piramide, che si vede lontano e lì i “ragazzi del vento” Keats e Shelley, sono con Gramsci: un mucchietto di ceneri moderne teneramente salvaguardate tra le rose dalla mano rugosa del passato, secondo le belle parole di Henry James.
E questo per la Storia, con la S maiuscola, che qui ci è passata davvero vicina, ma i teatri sono fatti per andarci in scena, come qui è accaduto prima che ci fosse India con tanti film, senza contare quelli girati sull’altra riva, come il celeberrimo Bellissima di Visconti. E allora durante questa teatrale visita in scena ci andrete voi distinto pubblico e inclita guarnigione, a cui i distintissimi attori, a loro gusto, daranno una parte da fare all’impronta, all’improvviso dal grande repertorio. Non abbiate paura, e che ci vuole ad andare in scena? Mica bisogna aver fatto una scuola o dei corsi per corrispondenza. Tanto il vostro personaggio è già segnalato sul copione, sottolineato con l’evidenziatore, non potrete sbagliare. E se anche sbagliate è uguale, conta di capire cosa sia una presenza in scena, nella scelta abbiamo messo opere che qui a India sono risuonate a partire dall’inizio della storia di questo spazio.
Quattro o cinque minuti di teatro.
(al pubblico viene fornito un copione per recitare alcuni passi dell’Amleto, di Sogno di una notte di mezza estate e di Misura per misura – gli spettacoli della trilogia shakespeariana di Carlo Cecchi che inaugurarono il Teatro India nel settembre del 1999 )
AMLETO Essere o non essere, questo è il problema.
che cos'è piu' nobile,soffrire nell'animo per i sassi e i dardi
scagliati dall'oltraggiosa fortuna,
o impugnare le armi contro un mare di affanni
e combatterli fino a farli cessare?
morire,dormire...niente piu'.
e con il sonno dire che poniano fine al dolore della carne
e alle mille afflizioni naturali a cui la carne è destinata?
questa è la fine che bisogna desiderare ardentemente!
morire,dormire..,forse sognare.ecco il difficile.
perchè quali sogni potranno visitarci in quel sonno di morte,
quando saremo usciti dalla stretta di questa vita piena
di affanni mortali,è un pensiero su cui ci si deve fermare a riflettere
e sono proprio pensieri siffatti a prolungare la durata della sventura.
perchè,chi sopporterebbe le sferzate e le irrisioni del tempo,
i torti dell'oppressore,le offese dei superbi,
le pene di un amore respinto,i ritardi della legge,
l'arroganza dei potenti,gli scherni che il meritevole
pazienztemente subisce da parte di gente indegna,
potendo trovare pace da se stesso con la semplice lama di un pugnale?
chi sarebbe disposto a portare carichi sulle spalle,
a gemere e sudare per le di,
a gemere e sudare per le difficoltà della vita,
se non ci fosse il timore di qualcosa dopo la morte,
questa terra inesplorata dai cui confini nessun
viaggiatore è mai tornato indietro,timore che,
confondendo la nostra volontà ci induce
a sopportare i mali di cui siamo afflitti,
piuttosto da spiccare
il volo verso altri a noi completamente ignoti?
cosi' la riflesione ci rende tuti vili.
Come un finale, per ora
Con gli anni ’80 questi spazi che ora ospitano India, terminarono tutte le loro funzioni
di industria e di commercio. Rimasero prezioso rudere industriale di un paesaggio
inedito per Roma, che subito alcuni pensarono di trasformare in condomini e supermercati, come tristemente accade secondo le regole di ferro della speculazione. Un gruppo di persone del luogo si ribellarono, cominciava a esistere per tutti il concetto di archeologia industriale, a Milano e a Torino si erano recuperati tanti luoghi, Luca Ronconi aveva tenuto a battesimo Gli ultimi giorni dell’umanità nel Lingotto di Mattè Trucco della FIAT. Guerre, lotte, come tutte le volte che la speculazione vuole colpire, che le architetture nuove non rispecchiano le vecchie, come succede ora sulla via Ostiense, dove una brutta costruzione postmoderna blocca per sempre un accesso ragionevole alla centrale Montemartini, destinata a essere nascosta alla Via Ostiense da una coltre di cemento. India nasce nel 1999 per volontà di Mario Martone, che volle un nome che alludesse a un viaggio dai lidi noti del centro, vicini alla storica piazza di Torre Argentina, a una periferia allora largamente sconosciuta, che negli spazi notturni del teatro non sarebbe sembrata invitante ai più. Lavori a rotta di collo, polvere acre dell’estate sul Tevere. L’inizio, le prime battute di Amleto: Chi è là? No, rispondi tu. Fermo, e rivelati. Viva il re!
I lavori poi si compiono nel 2005, sotto la guida di Ugo Colombari e Giuseppe De Boni e tanti sono stati gli spettacoli a venire e un Edipo che superava i limiti dell’ex territorio Mira Lanza. Partiva sfruttando all’inizio il tramonto infuocato e volava addirittura sopra la siepe che ne delimita lo spazio, vero altri lidi, che forse avevano più che vedere con il teatro che con la realtà.
Ora India, oltre ad essere un teatro con due sale ed una sala prove, è anche qualcosa d’altro: è un luogo dove il pubblico può trovare una ragione per viverlo in ogni ora del giorno: la mattina visite-spettacolo e laboratori, il pomeriggio presentazioni di libri, proiezioni di video o film; c’è una fornitissima libreria specializzata in teatro, musica e cinema e si può anche mangiare in compagnia, prima o dopo aver assistito ad uno dei tanti spettacoli in cartellone. Ora India è molto di più di un teatro.
Bolle di sapone: quelle dell’immaginazione, che galleggiano leggere nell’aria e che pure restano a lungo impresse nella retina e si trasformano in memorie, malgrado tutto.